La Suprema Corte torna ad interrogarsi sulla tematica dei delitti di opinione commessi a mezzo social network e lo fa pronunciandosi sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Imperia avverso il provvedimento col quale il Gip aveva disposto la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero, affinché disponesse la citazione diretta a giudizio dell’imputato.

Il ricorrente, in particolare, denunciava l’abnormità dell’ordinanza con cui il Gip locale aveva riqualificato l’imputazione a carico di un imputato catanese, reo di avere offeso la reputazione di un terzo mediante post diffamatori su Facebook. Per il giudice preliminare detta condotta valeva sì a configurare il delitto di diffamazione aggravata dal mezzo della pubblicità (Facebook, appunto) e dall’attribuzione di un fatto determinato, ma non anche la particolare aggravante dell’aver commesso il fatto col “mezzo della stampa”. Differenza determinante per i riflessi in ambito processuale: l’esclusione dell’aggravante del “mezzo della stampa”, infatti, preclude l’applicabilità della fattispecie delittuosa di cui all’art. 13 L. 47/1948 (legge sulla stampa), dimezzandone la pena edittale, con la conseguenza di escludere la necessità dell’udienza preliminare ai fini dell’esercizio dell’azione penale, essendo reato perseguibile mediante citazione diretta a giudizio.

Impostazione condivisa dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento, la quale, nel solco già tracciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 31022 del 29/01/2015, ha affermato il seguente principio di diritto: “Se, come ripetutamente affermato nella giurisprudenza di legittimità, anche la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, poichè questa modalità di comunicazione ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, il social-network non è inquadrabile nel concetto di “stampa””,  trattandosi di “un servizio di rete sociale, basato su una piattaforma software che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema“.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUNO Paolo Antonio – Presidente –

Dott. PEZZULLO Rosa – Consigliere –

Dott. SCARLINI Enrico V. S. – Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – rel. Consigliere –

Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE DELLA REPUBBLICA presso il Tribunale di IMPERIA;

nel procedimento a carico di:

M.A., nato (OMISSIS);

avverso la ordinanza del 11/11/2015 del GIUDICE DELL’UDIENZA PRELIMINARE presso il TRIBUNALE di IMPERIA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Irene Scordamaglia;

lette le conclusioni rassegnate dal P.M., in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Fraticelli Mario che ha chiesto l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata.

Svolgimento del processo

  1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Imperia propone ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del giudice per l’udienza preliminare che aveva disposto, ai sensi degli artt. 33 -quinquies e 33 – sexies c.p.p., la restituzione degli atti al pubblico ministero perchè provvedesse alla citazione diretta a giudizio dell’imputato, essendo stato a quest’ultimo contestato il delitto di cui all’art. 595 c.p., commi 1, 2 e 3 – per avere pubblicato sul proprio profilo “facebook” un testo con il quale offendeva la reputazione di MI.Fr., attribuendogli un fatto determinato tramite Internet. In (OMISSIS), reato per il quale è stabilito, ai sensi dell’art. 550 c.p.p., comma 1, l’esercizio dell’azione penale mediante il decreto di citazione diretta a giudizio ai sensi dell’art. 552 c.p.p., essendo punito con la pena edittale massima di tre anni di reclusione.
  2. A sostegno della dedotta abnormità dell’ordinanza impugnata, che aveva determinato un’indebita regressione del procedimento, il ricorrente osservava che il giudice dell’udienza preliminare erroneamente aveva ritenuto che il delitto contestato fosse punito con una pena edittale non superiore a quattro anni di reclusione, poichè la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, venendo in essere una condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone; con la conseguenza che, essendo stata altresì contestata l’ipotesi di attribuzione di fatto determinato, il giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto prendere in considerazione, ai fini della determinazione della propria competenza, la pena massima edittale della reclusione fino a sei anni prevista dalla L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 13 (Disposizione sulla stampa) quale circostanza ad effetto speciale del delitto di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.

Motivi della decisione

Il ricorso deve essere rigettato perchè infondato.

  1. La questione sottoposta allo scrutinio di legittimità esige che sia richiamata la lezione ermeneutica impartita da questa Corte che, nei suoi numerosi arresti, ha ricondotto alla categoria dell’abnormità non solo il provvedimento che, per la sua singolarità, non sia inquadrabile nell’ambito dell’ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite (Sez. U, n. 11 del 09/07/1997 – dep. 31/07/1997, Quarantelli, Rv. 20822101; Sez. 6, n. 2121 del 11/06/1998 – dep. 21/07/1998, Villacidro, Rv. 211315; Sez. 1, n. 4023 del 11/06/1996 – dep. 25/07/1996, Settegrana, Rv. 20535801; Sez. 5, n. 182 del 13/01/1994 – dep. 11/02/1994, Marino, Rv. 197091). Siffatta fenomenologia patologica può riguardare, quindi, tanto il profilo strutturale, allorchè, per la sua singolarità, il provvedimento emesso si ponga, appunto fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando, pur se non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo, provocando, ad esempio, una indebita regressione del procedimento in grado di alterarne l’ordinata sequenza logico-cronologica (Sez. U, n. 5307 del 20/12/2007 – dep. 01/02/2008, P.M. in proc. Battistella, Rv. 23824001; Sez. U, n. 17 del 10/12/1997 – dep. 12/02/1998, Di Battista, Rv. 20960301; Sez. 3, n. 2853 del 14/07/1995 – dep. 08/09/1995, Beggiato ed altri, Rv. 20540601; Sez. 5, n. 1465 del 11/03/1994 – dep. 18/04/1994, P.M. in proc. Luchino ed altro, Rv. 19799901).
  2. Così delineato, in termini generali, il problema, poichè, dunque, l’abnormità non inerisce a quei provvedimenti che, ancorchè eventualmente adottati in violazione di specifiche norme, rientrano tra gli atti tipici dell’ufficio che li adotta (Sez. 2, n. 5180 del 05/11/1999 – dep. 15/12/1999, Saraceno, Rv. 21518401), l’ordinanza impugnata non può essere qualificata come abnorme, costituendo, piuttosto, l’espressione del potere – attribuito al giudice dell’udienza preliminare – di controllo sulla qualificazione giuridica del fatto: potere che rimane legittimamente esercitato pur se in maniera non corretta in conseguenza dell’erronea interpretazione di una norma giuridica. Tale conclusione, cui il Collegio ritiene di prestare adesione, si appalesa, peraltro, in linea con quanto stabilito da questa Corte nella decisione di casi del tutto sovrapponibili, nei quali è stato formulato il principio di diritto secondo cui non è abnorme il provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero, ancorchè sull’erroneo presupposto della qualificazione del fatto come reato procedibile a citazione diretta (Sez. 5, n. 30834 del 3/07/2014 – dep. 11/07/2014, P.M. Trib. Salerno, non mass.; Sez. 1, n. 47766 del 06/11/2008 -dep. 23/12/2008, Lungari, Rv. 242747): “tanto perchè il giudice dell’udienza preliminare, come ogni altro giudice di fronte alla richiesta delle parti, ha il potere-dovere, quale espressione indefettibile del principio di legalità e della funzione di ius dicere, di dare al fatto contestato una diversa definizione o qualificazione giuridica, riconducendo così la fattispecie concreta allo schema legale che le è proprio. E ciò in forza della valenza generale della regola contenuta nell’art. 521 c.p.p., comma 1, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale e delle Sezioni unite di questa Corte di legittimità” (Sez. 6, n. 41037 del 20/10/2009 – dep. 26/10/2009, Betti, Rv. 24503301).
  3. Nel merito della questione, stima, peraltro, questa Corte che il giudice dell’udienza preliminare non abbia neppure qualificato erroneamente il fatto contestato all’imputato. Infatti, se, come ripetutamente affermato nella giurisprudenza di legittimità, anche la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, poichè questa modalità di comunicazione di un contenuto informativo suscettibile di arrecare discredito alla reputazione altrui, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, perchè attraverso questa “piattaforma virtuale” gruppi di soggetti valorizzano il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un numero indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione (Sez. 5, n. 8328 del 13/07/2015 – dep. 01/03/2016, Martinez, non massimata sul punto), tuttavia, proprio queste peculiari dinamiche di diffusione del messaggio screditante, in una con la loro finalizzazione alla socializzazione, sono tali da suggerire l’inclusione della pubblicazione del messaggio diffamatorio sulla bacheca “facebook” nella tipologia di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, che, ai fini della tipizzazione della circostanza aggravante di cui all’art. 595 c.p., comma 3, il codificatore ha giustapposto a quella del “mezzo della stampa” (Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015 – dep. 08/06/2015, Conflitto di competenza, Rv. 26400701).
  4. L’interpretazione proposta dal Collegio si pone, peraltro, in linea di continuità con la soluzione cui sono pervenute le Sezioni Unite di questa Corte, che, nella sentenza n. 31022 del 29/01/2015 – dep. 17/07/2015, Fazzo e altro, Rv. 26409001, dopo avere affermato la legittimità di una interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata del termine “stampa” – così da estendere alle testate giornalistica telematiche le guarentigie di rango costituzionale e di livello ordinario assicurate a quelle tradizionali in formato cartaceo – hanno ritenuto necessario chiarire che l’esito di tale operazione ermeneutica non può riguardare tutti in blocco i nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, pagine Facebook), ma deve rimanere circoscritto a quei soli casi che, per i profili, strutturale e finalistico, che li connotano, sono riconducibili nel concetto di “stampa” inteso in senso più ampio. Il più autorevole Consesso ha, quindi, spiegato che: “Deve tenersi ben distinta l’area dell’informazione di tipo professionale, veicolata per il tramite di una testata giornalistica on line, dal vasto ed eterogeneo ambito della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo”, ed ha concluso, quindi, con il precisare che: “Anche il social-network più diffuso, denominato Facebook, non è inquadrabile nel concetto di “stampa””, essendo: “un servizio di rete sociale, basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione, che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema“.

Da qui la correttezza della qualificazione giuridica del fatto compiuta dal giudice nel provvedimento impugnato, che ha ineccepibilmente ritenuto essere il delitto di diffamazione contestato all’imputato aggravato dalla sola circostanza prevista dall’art. 595 c.p., commi 2 e 3, – offesa arrecata mediante l’attribuzione di un fatto determinato con un qualunque mezzo di pubblicità – e non anche da quella prevista dalla L. n. 47 del 1948, art. 13 – attribuzione di un fatto determinato con il mezzo della stampa -.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso del Pubblico Ministero.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2017