Si segnala un contrasto sorto all’interno della Corte di cassazione in merito all’interpretazione del fine di profitto che caratterizza il delitto di furto.

Come noto, la fattispecie descritta dall’art. 624 c.p. è strutturata come un reato a dolo specifico, perché è caratterizzata dal perseguimento di un fine particolare, quello di profitto, in assenza del quale è il reato non è integrato.

Con sentenze coeve, la suprema Corte ha offerto interpretazioni contrapposte, aderendo talvolta ad una tesi estensiva, secondo la quale il fine di profitto può consistere nel soddisfacimento di un bisogno non lucrativo e talaltra ad una tesi restrittiva, che identifica tale fine con la volontà di trarre un’utilità di natura primariamente patrimoniale dal bene sottratto.

Il primo indirizzo giurisprudenziale è sostenuto da Cass. pen., sez. 5, n. 11225 del 16/01/2019, Dolce; n. 19882 del 16/02/2012, Aglietta e n. 30 del 18/09/2012, Caleca; sez. 2, n. 40631 del 9/10/2012, Sesta; n. 4471 del 12/02/10985, Bazzani. Queste decisioni fanno leva sull’ampia portata letterale della norma incriminatrice, che non limita espressamente il fine di profitto alla sola dimensione patrimoniale, rendendolo dunque compatibile anche con fini esclusivamente non lucrativi, quali dispetto, ritorsione, vendetta.

Sulla scorta di tale interpretazione, la suprema Corte ha ritenuto integrato il delitto di furto nel caso dell’appropriazione di un impianto di videosorveglianza, finalizzata ad impedire l’acquisizione di elementi di prova in relazione ad un altro reato commesso dall’imputato; di sottrazione di sostanza stupefacente per finalità di interesse scientifico; di un’agendina telefonica per impedire alla vittima di fare una telefonata; di una borsa per mero dispetto).

Il secondo indirizzo giurisprudenziale è sostenuto da Cass. pen., sez. 5, n. 40438 dell’1/07/2019, Stawickza e da Cass. pen. sez. 5, n. 30073 del 23/01/2018, Lettina.

Tale orientamento restrittivo valorizza un dato sistematico e uno logico.

Sotto il primo profilo,  la Corte di cassazione evidenzia che il furto è collocato tra i delitti contro il patrimonio: lo scopo dell’incriminazione, dunque, non è soltanto quello di evitare l’impoverimento altrui ma anche quello di scoraggiare l’arricchimento o comunque l’indebito vantaggio di natura economica da parte dell’agente.

Sul piano logico, l’estensione della nozione di profitto a qualsiasi utilità soggettivamente apprezzabile tradirebbe la funzione selettiva e garantista del dolo specifico, degradandolo ad una sorta di profitto in re ipsa coincidente con il movente dell’azione.

Occorre dunque che l’agente intenda conseguire un incremento della propria sfera patrimoniale quale fine diretto e immediato dell’azione; tale fine può certamente coesistere con la realizzazione di altri scopi, di natura materiale e spirituale, purché si tratti di obiettivi mediati e ulteriori rispetto a quello primario del proprio arricchimento.

Sulla base di tali argomenti, la suprema Corte, nella sentenza più recente registrata sull’argomento, n. 40438 dell’1/07/2019, Stawicka, ha escluso che l’impossessamento di un consistente numero di cani di razza da parte degli imputati, commesso con intento dimostrativo per sottrarre gli animali dal regime segregativo di uno stabulario, integrasse il reato di furto.

La Corte di cassazione ha disposto l’annullamento con rinvio affinché i giudici di merito accertino il dolo specifico sotteso all’azione dimostrativa, in conformità alle direttrici ermeneutiche sopra indicate e coerenti con un’interpretazione restrittiva del fine di profitto nel delitto di furto.

avv. Martina Fusato