Traccia Parere Penale Nr. 1 – Esame Avvocato 2017

In data 9 febbraio 2016 il giudice tutelare di Alfa nomina Caia amministratrice di sostegno di Tizio, affetto da demenza senile tipo Alzheimer, con il compito di gestire il trattamento pensionistico di Tizio e di impugnare, a nome di quest’ultimo, un contratto da questi stipulato nel 2015 sotto la spinta di artifici e raggiri perpetrati da terzi.

In data 7 maggio 2017, a seguito delle segnalazioni provenienti da alcuni vicini, i vigili del fuoco accedono d’urgenza nell’appartamento di Tizio rinvenendolo in pessime condizioni igieniche, senza cibo e bevande e con rifiuti all’interno dell’abitazione. Tizio viene dunque ricoverato in ospedale e, a seguito della relazione pervenuta, il giudice tutelare revoca la nomina di Caia quale amministratrice di sostegno e trasmette gli atti alla locale Procura della Repubblica, ipotizzando la ricorrenza del reato di cui all’art. 591 c.p.

Caia, preoccupata, si rivolge dunque ad un legale per un consulto.

Il candidato, assunte le vesti del legale di Caia, premessi i brevi cenni sul reato di abbandono di persone incapaci, rediga motivato parere esaminando le questioni sottese al caso in esame.

Soluzione proposta

Il parere sottoposto all’attenzione del candidato richiede di valutare la penale responsabilità di Caia per le condotte da lei tenute in qualità di Amministratore di sostegno dell’anziano Tizio, affetto da demenza senile tipo Alzheimer.

In particolare, Caia veniva nominata dal giudice tutelare nel 2016 allo scopo di gestire il trattamento pensionistico di Tizio e di impugnare a nome di quest’ultimo un contratto stipulato nel 2015 sotto la spinta di artifici e raggiri perpetrati da terzi. Nel maggio 2017, a seguito di alcune segnalazioni da parte dei vicini, i vigili del fuoco accedevano d’urgenza all’abitazione di Tizio e lo rinvenivano in uno stato di abbandono, in pessime condizioni igieniche, senza cibo e bevande e circondato dai rifiuti.

La vicenda richiede, dunque, di premettere innanzitutto brevi cenni in merito al delitto di abbandono di persone minori e incapaci di cui all’art. 591 c.p., chiarendo, in particolare, se si tratti di delitto proprio o comune e, conseguentemente, quale sia la qualifica soggettiva richiesta in capo all’agente.

Ciò condurrà ad analizzare, per completezza, il tema della posizione di garanzia ex art. 40 comma 2 c.p. e, specificamente, delle fonti dalle quali può scaturire tale obbligo. Sarà infatti necessario chiarire, quali soggetti possano ricoprire una cd. posizione di garanzia e in quali circostanze.

Infine, si tratterà di valutare se la qualifica giuridica di amministratore di sostegno possa di per sé sola configurare una posizione di garanzia e, conseguentemente, determinare se l’amministratore di sostegno sia soggetto attivo ex art. 591 c.p. in ogni caso, ovvero solamente nelle ipotesi in cui tale responsabilità si evinca dalla nomina stessa o dalle circostanze specifiche del caso di specie.

Procedendo nell’ordine logico proposto si tratta innanzitutto di definire l’ambito applicativo del reato di cui all’art. 591 c.p. rubricato “abbandono di persone minori o incapaci”.

Tale ipotesi delittuosa, disciplinata tra i delitti contro la persona, punisce chiunque, avendo la cura o la custodia di una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, la abbandoni.

Trattasi di reato di pericolo, proprio, che può essere posto in essere solo da chi abbia una relazione di cura e/o custodia con la persona offesa (come si dirà più ampiamente in seguito), volto a tutelare la vita e l’integrità fisica di persone incapaci di provvedere da sé alla propria incolumità, nonché alla tutela del valore etico-sociale della sicurezza della persona fisica contro determinate situazioni di pericolo (in tal senso: Cass. pen., Sez. IV, 20 novembre 2001 n. 45431).

Quanto all’elemento oggettivo, esso è costituito da qualunque azione od omissione contrastante con il dovere giuridico di cura o custodia, da cui possa conseguire uno stato di pericolo anche solo eventuale per l’incolumità di una persona (ex multis: Cass. pen., Sez. II, 8 marzo 2013 n. 10994).

Appare utile evidenziare, come lo stato di abbandono possa essere determinato da condotte sia attive che passive che portino ad una mancata cura o custodia del soggetto passivo.

Infine, il delitto in parola è punito a titolo di dolo generico, consistenze nella coscienza e volontà di abbandonare a se stesso il soggetto passivo che non abbia la capacità di provvedere alle proprie esigenze (così ad esempio: Cass. pen., n. 15147/2007; 10994/2012).

Al fine di meglio sondare i margini applicativi del reato in questione e, in particolare, della sua applicabilità a soggetti che rivestano una posizione di garanzia nei confronti del soggetto passivo, occorre dunque precisare che cosa debba intendersi per posizione di garanzia.

Tale breve disamina deve necessariamente prendere le mosse dall’art. 40 cpv. c.p. a norma del quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Tale disposizione, che pone la cd. clausola di equivalenza equiparando negli effetti il non impedire al cagionare, ha funzione estensiva consentendo infatti di punire ipotesi di reato commissivo anche nel caso in cui l’evento sia stato prodotto tramite una omissione.

Quanto alle fonti dell’obbligo di impedire l’evento, la dottrina tradizionale ha individuato tutta una serie di ipotesi in cui scaturirebbe tale obbligo in capo al soggetto passivo (e, in particolare esso potrebbe derivare: dalla legge, dal contratto, da un ordine dell’autorità giudiziaria, dalla precedente attività pericolosa, dalla consuetudine e dalla volontaria assunzione dell’obbligo stesso). Altri interpreti hanno, invece, criticato tale approccio formalista ritenendo di dover valutare nel concreto, ai fini dell’imputazione di un certo evento non impedito, la sostanziale posizione di garanzia del suo non verificarsi.

Ebbene, la giurisprudenza sul punto si è assestata su una posizione che potremmo definire intermedia, ritenendo necessaria una previsione formale di tale obbligo, accompagnata però nella sostanza, da una concreta presa in carico della situazione da parte del garante, dalla violazione di una regola cautelare, e dell’elemento soggettivo necessario (in tal senso: Cass. pen., 2015 n. 5404).

Allo stesso modo, nel caso dell’art. 591 c.p., non vi sono limiti rispetto alla fonte da cui possa derivare l’obbligo giuridico alla custodia e alla cura. Proprio in virtù di tale considerazione, si è posto dunque il problema di comprendere se l’amministratore di sostegno possa, in virtù della sua qualifica soggettiva, essere ritenuto soggetto responsabile ai sensi del 591 c.p..

Ci si è chiesti, cioè, se l’amministratore di sostegno, in qualità di soggetto che ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibilità della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, debba essere considerato garante nei confronti dell’incapace di cui è nominato amministratore (art. 404 c.c.).

Si sottolinea, peraltro, come tale figura si ponga come tertium genus rispetto alla figura del tutore previsto per l’interdetto e l’inabilitato ai sensi degli artt. 414 e 415 c.c. Sul punto è recentemente intervenuta la Corte Costituzionale che, investita della tematica del discrimen tra le tre figure, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 409, 404 e 405 c.c., ritenendo sufficienti i criteri selettivi per distinguere tra i tre istituti. In particolare, la distinzione dovrebbe essere operata dal giudice nel caso di specie, valutando la soluzione che comprima il meno possibile la libertà del soggetto beneficiario e che, allo stesso modo, ne tuteli in maniera sufficiente gli interessi. Ha precisato la Consulta, per quanto qui di interesse, come la figura dell’amministratore di sostegno possa essere usata per attribuire i poteri specificamente correlati alle esigenze del caso di specie (Corte Cost., sent. 440/2005).

Tale approdo consente cioè di precisare come la figura dell’amministratore di sostegno non debba essere intesa come figura preconfezionata ed intercambiabile in tutte le ipotesi di una più ridotta infermità fisica o psichica rispetto alle ipotesi degli interdetti o inabilitati, bensì debba essere modulata caso per caso tenendo in debito conto le esigenze del beneficiario.

Tale rilievo non appare privo di valore per il caso che qui ci occupa, poiché l’argomentare della Corte consente di escludere che la qualifica di amministratore di sostegno possa in sé e per sé importare una responsabilità ex art. 591 c.p. nel caso di materiale abbandono del beneficiario. Occorre, piuttosto, valutare se la fonte dei poteri dell’amministratore di sostegno prevedesse un onere in capo ad esso di cura e vigilanza. In altre parole, sarà necessario esaminare il decreto di nomina emesso dal giudice tutelare per valutare l’ambito di operatività dell’amministratore di sostegno e i relativi obblighi giuridici che ne scaturiscono.

Non può inoltre tacersi il fatto che l’amministratore di sostegno, pur avendo obblighi di relazionare periodicamente sulle condizioni di vita e sociali e sulle attività svolte dal beneficiario, il compito rimane quello di assistere la persona nello svolgimento dei propri interessi patrimoniali.

Ciò comporta, dunque, che la sola qualifica soggettiva di amministratore di sostegno non può essere ritenuta sufficiente indice della esistenza della relazione di vigilanza e cura richiesta ai fini dell’applicabilità dell’art. 591 (In tal senso anche Cass. pen., Sez. V, n. 7974/2015).

Poste tali premesse sul piano astratto, è possibile procedere alla sussunzione delle stesse nel caso di specie.

Si osserva in primo luogo come Caia fosse stata nominata amministratrice di sostegno dell’anziano e malato Tizio nel 2016, allo scopo di seguire il suo testamento pensionistico, nonché l’impugnazione di un contratto concluso in quanto circuito da terzi.

Orbene, escluso anche alla luce della giurisprudenza richiamata che la sola investitura di Caia da parte del giudice tutelare possa bastare ai fini di riconoscerla la qualifica soggettiva necessaria ai sensi dell’art. 591 c.p., occorre precisare quanto segue.

I dati a disposizione emergenti dalla traccia, paiono indicare una specifica indicazione a Caia in ordine alla sola tutela giuridica e patrimoniale degli interessi di Tizio, peraltro circostanziati in maniera precisa. Non sembra, cioè, potersi desumere da tali elementi un precipuo obbligo giuridico di vigilanza e cura, ma piuttosto uno specifico e limitato ambito di operatività entro il quale agire, nel rispetto e in osservanza delle aspirazioni e dei desideri di Tizio.

Ciò posto, non pare irrilevante, a parere dello scrivente, osservare che l’arco temporale intercorso tra la nomina di Caia e il rinvenimento di Tizio in stato di abbandono è di più di un anno.

Oltre a ciò, deve evidenziarsi altresì, nel silenzio della traccia, che non sembrano esservi stati contatti tra Caia e Tizio in quel lasso temporale, in parziale violazione dei doveri dell’amministratore di sostegno che sempre deve interfacciarsi col beneficiario e relazionare sulle sue condizioni, pur non avendo un generale obbligo di tutela della vita e dell’incolumità del beneficiario. Tale considerazione potrebbe far propendere nel senso della potenziale applicabilità del reato di cui all’art. 591 c.p.

Deve, in senso opposto, tuttavia, osservarsi come non sembra configurabile in capo all’amministratrice di sostegno quella coscienza e volontà necessaria al fine dell’integrazione del reato. Non sembra cioè che sia possibile addebitare, a titolo di dolo, l’abbandono posto in essere da Caia. Sembra, al contrario, potersi concludere nel senso che Caia abbia male svolto il suo compito di amministratore di sostegno, tenendo una condotta negligente ed imperita.

In considerazione, dunque, dell’elemento soggettivo previsto dalla disposizione di cui all’art. 591 c.p. che impone di riconoscere in capo al soggetto agente, la coscienza e volontà di abbandonare un incapace di provvedere a se stesso, e considerata l’assenza nel decreto di nomina di un più generale obbligo di vigilanza e cura verso Tizio, non si ritiene di poter concludere nel senso della penale responsabilità di Caia.

Tali conclusioni appaiono, del resto, in linea con la più recente giurisprudenza e in particolare con la pronuncia di Cass. pen., Sez. V, 7974/2015 secondo cui:

“L’amministratore di sostegno non risponde del reato di abbandono di persone incapaci, in quanto, salvo che sia diversamente stabilito nel decreto di nomina, lo stesso, a differenza del tutore, non è investito di una posizione di garanzia rispetto ai beni della vita e dell’incolumità individuale del soggetto incapace, ma solo di un compito di assistenza nella gestione dei suoi interessi patrimoniali.”

Traccia Parere Penale Nr. 2 – Esame Avvocato 2017

Tizio, dopo aver lungamente osservato le abitudini del pensionato Mevio, di anni 75, un giorno lo avvicina mentre questi sta rientrando a casa spacciandosi per un amico di vecchia data del di lui figlio Caio e, carpitane in tal modo la fiducia, lo convince a consentirgli di entrare nell’appartamento. Qui, rappresentando di vantare un credito di euro 500 nei confronti di Caio, di trovarsi in momentanee ristrettezze economiche e di essere pertanto intenzionato ad agire in giudizio nei confronti del predetto per ottenere la soddisfazione del proprio credito, Tizio convince Mevio a consegnargli tale somma; inoltre, approfittando di una momentanea distrazione di Mevio, fruga in un cassetto del soggiorno e si impossessa della ulteriore somma di euro 300 ivi rinvenuta, dandosi poi alla fuga.

Nell’uscire Tizio si accorge però della presenza di telecamere di sicurezza nel palazzo e teme essere in tal modo identificato, essendo pluripregiudicato per reati specifici: decide dunque di recarsi dal proprio legale per un consulto.

Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga motivato parere individuando i reati configurabili nel caso di specie e la relativa disciplina, anche in ordine alla procedibilità dell’azione penale e alla possibilità di applicazione di misura cautelare.

Soluzione proposta

Il caso sottoposto all’attenzione del candidato chiede di valutare la penale responsabilità di Tizio, pluripregiudicato per reati contro il patrimonio, per le condotte poste in essere nei confronti di Mevio, pensionato di 75 anni. Tizio, infatti, dopo aver a lungo osservato le abitudini di Mevio, lo avvicina spacciandosi per un amico del figlio di questi, Caio, e lo convince a consentirgli di entrare in casa, ove rappresentando di vantare un credito di 500,00 euro nei confronti di Caio e manifestandogli l’intenzione di agire in giudizio contro il predetto per ottenere soddisfazione al proprio credito, si fa consegnare tale somma. Successivamente, approfittando della momentanea distrazione di Mevio, fruga in un cassetto e si impossessa della somma di 300,00 euro.

Per una compiuta risoluzione del quesito proposto, precisando sin d’ora che Tizio ha posto in essere due differenti condotte, sarà necessario soffermarsi, in primo luogo, sulla riconducibilità della prima condotta all’ipotesi di truffa di cui all’art. 640 c.p., evidenziando le ragioni per cui è possibile escludere l’ipotesi di circonvenzione di persone incapaci p. e p. dall’art. 643 c.p., e valutando, specificamente, la procedibilità dell’azione penale.

In secondo luogo, sarà opportuno analizzare la condotta posta in essere da Tizio, approfittando della momentanea distrazione di Mevio, e stabilire se la stessa possa essere ricondotta all’ipotesi di furto semplice ovvero al reato di furto in abitazione di cui all’art. 624 bis c.p., evidenziando le ricadute in termini di procedibilità.

Successivamente, sarà necessario vagliare la configurabilità di circostanze aggravanti applicabili al caso di specie e, da ultimo, si valuteranno le eventuali ripercussioni pratico/processuali in ordine all’applicazione di misure cautelari.

Procedendo nell’ordine logico proposto, è doveroso comprendere se l’essersi fatto consegnare la somma di 500,00 euro carpendo la fiducia della vittima e manifestando di vantare un credito nei confronti del figlio della stessa integri il reato di truffa e per quale ragione non possa invece ritenersi integrato quello di circonvenzione di incapace.

L’art. 640 c.p. punisce chiunque, con artifici o raggiri, inducendo taluno in errore, procuri a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. L’ipotesi delittuosa de qua richiede dunque la sussistenza dei seguenti elementi costitutivi: l’artificio o il raggiro, l’induzione in errore, l’atto di disposizione patrimoniale e l’ingiusto profitto con altrui danno.

Per quel che concerne l’artificio, si ritiene pacificamente che sia tale quella simulazione di circostanze inesistenti o quella dissimulazione di circostanze esistenti che genera una trasfigurazione del vero, camuffandolo, e che crea, di fatto, una falsa apparenza materiale nella realtà esterna.

Il raggiro, invece, è comunemente riconosciuto nell’avvolgimento subdolo ed ingegnoso di parole destinate a convincere la persona offesa, orientandola in modo fuorviante nelle sue decisioni.

Sia l’artificio che il raggiro, poi, devono essere idonei ad indurre in errore il soggetto passivo e, pertanto, a determinare lo stesso alla realizzazione di un atto di disposizione patrimoniale (elemento non espressamente previsto dalla norma incriminatrice, ma implicitamente supposto).

In ordine al danno arrecato alla persona offesa, per giurisprudenza consolidata, si ritiene che lo stesso debba avere necessariamente natura patrimoniale ed economica, laddove invece l’ingiusto profitto può avere anche natura diversa (dovendo pur sempre mantenere un carattere di ingiustizia che deve essere valutata in relazione al momento in cui il soggetto attivo consegue la disponibilità della cosa altrui).

L’elemento soggettivo richiesto per l’integrazione del delitto p. e p. dall’art. 640 c.p. è il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà del fatto tipico, in ognuno dei suoi elementi costitutivi.

In ordine ai profili di procedibilità, il comma 3 dell’art. 640 c.p. prevede la punibilità a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze aggravanti previste dalla norma medesima, ovvero altra circostanza aggravante.

Il reato di cui all’art. 643 c.p., invece, punisce chiunque ponga in essere un’aggressione alla sfera personale e patrimoniale di persone in stato di debolezza ed inferiorità mentale. La fattispecie si caratterizza, quindi, per la previsione di tre categorie specifiche di soggetti passivi che sono i minori, gli infermi e i deficienti psichici. Di talché, anche con riferimento a tale ultima categoria, pur non essendo necessario intendersi la nozione in senso clinico, è comunque necessario uno stato di minorazione delle facoltà di discernimento e volizione effettivo ed apprezzabile. La condotta incriminata, infatti, consiste in un’attività di induzione mediante abuso delle condizioni di minorazione psichica.

Ne deriva che, laddove tale condizione presupposta non sia riscontrata e/o riscontrabile, il reato de quo non possa dirsi integrato.

Venendo ora ad analizzare la seconda condotta posta in essere da Tizio e consistita nell’aver approfittato di una momentanea distrazione di Mevio per frugare in un cassetto e impossessarsi di una somma di denaro ivi contenuta, si osserva come risulti preliminare delineare gli elementi costitutivi del reato di furto di cui all’art. 624 c.p. e indicare i requisiti richiesti invece dalla fattispecie autonoma di cui all’art. 624 bis c.p.

Il furto semplice punisce chiunque si impossessi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri. Si tratta di reato comune punito a titolo di dolo specifico, consistente nella volontarietà della sottrazione e dell’impossessamento unita alla consapevolezza dell’altruità della cosa nonché al fine sussistente in capo all’agente di trarre un profitto.

Rispetto a tale delitto, l’art. 624 bis c.p. costituisce un’autonoma figura di reato e si distingue dal primo per la forma vincolata della condotta. Per espressa previsione legislativa, infatti, perché si abbia furto in abitazione, l’azione tipica di cui all’art. 624 c.p. deve realizzarsi mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa. Di conseguenza, il bene giuridico tutelato dalla norma in parola riguarda sia l’interesse patrimoniale leso dalla sottrazione del bene altrui, sia la sicurezza individuale intesa quale inviolabilità fisica e psichica della sfera personale del soggetto passivo. Si tratta, precisamente, di reato complesso costituito dall’ipotesi di furto e dalla fattispecie di violazione di domicilio di cui all’art. 614 c.p.

Ai fini dell’integrazione del delitto de quo l’introduzione nell’altrui abitazione deve avvenire contro la volontà del titolare dello ius excludendi. Ne deriva che non si avrà furto in abitazione ogniqualvolta l’ingresso sia avvenuto previo consenso dell’interessato e, precisamente, qualora il soggetto agente abbia approfittato del luogo in cui casualmente si trovava per commettere il furto.

Tuttavia, problematica appare la qualificazione giuridica della condotta nel caso in cui l’introduzione sia avvenuta con un consenso carpito però con l’inganno. In tale ipotesi, infatti, non può ritenersi validamente e liberamente esercitato il consenso, risultando comunque leso il diritto del soggetto passivo di escludere terzi dalla propria abitazione.

Sul punto, la consolidata giurisprudenza di legittimità ritiene che il furto in abitazione sia integrato dalla condotta di colui che si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, mediante l’introduzione nell’abitazione del soggetto passivo a seguito di consenso di quest’ultimo carpito con l’inganno (Cass. pen., sez. V, 26.5.2017, n. 42757; Cass. pen., sez. V, 10.6.2014, n. 41149).

Il reato di cui all’art. 624 bis c.p. è procedibile d’ufficio.

Per quel che concerne, poi, la sussistenza di eventuali circostanze aggravanti, si osserva come in relazione alla prima condotta in esame, appaia configurabile l’aggravante di cui all’art. 61 n. 5) c.p.. Infatti, l’aver approfittato di circostanze di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, appare dimostrato dal fatto di aver carpito le abitudini di un soggetto anziano e di averlo seguito per lungo tempo, tanto da conoscerne il nome del figlio.

In relazione alla seconda condotta, si rappresenta come l’aver approfittato di una momentanea distrazione della p.o. sembri integrare la nozione di “destrezza” di cui all’art. 625, comma 1, n. 4) c.p. In relazione a ciò, tuttavia, si osserva come recentemente la Suprema Corte abbia escluso la sussistenza di tale circostanza aggravante nel caso in cui il furto sia commesso da chi si limiti ad approfittare di situazioni, dallo stesso non provocate, di distrazione o di momentaneo allontanamento del detentore della res (Cass. pen., SS. UU., 27.4.2017, n. 34090). Di talché, la mera momentanea distrazione del soggetto passivo di cui approfitta l’agente non è di per sé idonea ad integrare l’aggravante della destrezza.

Appare altresì configurabile la circostanza di cui all’art. 61 n. 11) c.p. e in particolare, l’aver commesso il fatto con abuso di ospitalità. È evidente, infatti, come possa ritenersi integrata tale circostanza ogniqualvolta si identifichino nell’azione del soggetto sia la maggiore intensità criminale dell’ospite che tradisce la fiducia in lui riposta dalla persona ospitante, sia l’agevolazione alla commissione del delitto che tale rapporto di ospitalità, seppur momentaneo, gli offre e ciò anche laddove la relazione di ospitalità tragga origine dal consenso della persona ospitante viziato dall’inganno della persona ospitata (in tal senso: Cass. pen., sez. V, 26.5.2017, n. 42757).

Procedendo ora alla sussunzione di quanto osservato in astratto nello specifico caso concreto si osserva come Tizio appaia penalmente responsabile per i reati di cui all’art. 640 c.p. in relazione alla prima condotta e di cui all’art. 624 bis c.p. con riferimento alla seconda.

Per quel che concerne la truffa, infatti, è evidente come Tizio abbia posto in essere artifici consistiti nel rappresentare a Mevio un’amicizia di vecchia data con il figlio di questi tanto da carpire la sua fiducia e farsi accogliere in casa. Tizio poi ha proseguito nella propria condotta fraudolenta, manifestando a Mevio di vantare un credito nei confronti del figlio e di avere pertanto intenzione di agire in giudizio per ottenerne soddisfazione. Con tali artifici, Tizio induceva in errore Mevio e si faceva consegnare la somma di 500,00 euro. Tale condotta, del resto, veniva posta in essere abusando delle specifiche condizioni personali di Mevio il quale, oltre ad essere soggetto anziano, veniva per lungo tempo spiato da Tizio.

Quest’ultimo pertanto sarà perseguibile d’ufficio per il reato di truffa aggravato ai sensi dell’art. 640, co. 2, n. 2-bis) c.p. in relazione all’art. 61 n. 5) c.p..

In ordine alla seconda condotta, consistita nell’aver approfittato di una momentanea distrazione di Mevio per impossessarsi della somma di 300,00 euro contenuta in un cassetto, appare integrato il reato di furto in abitazione atteso che dalla traccia emerge pacificamente come Tizio abbia carpito con inganno il consenso di Mevio ad entrare in casa. Secondo la più recente interpretazione giurisprudenziale, infatti:

“In merito al reato di furto in abitazione, questo è integrato dalla condotta di colui che si impossessa di beni mobili, attraverso l’introduzione nell’abitazione del soggetto passivo dopo aver carpito il consenso di quest’ultimo con l’inganno.”
(Cass. pen., sez. V, 26.5.2017, n. 42757).

La condotta dell’agente appare inoltre aggravata dall’aver abusato dell’ospitalità offerta da Mevio.

Risulta invece non applicabile l’aggravante del furto con destrezza atteso che Tizio si è limitato ad approfittare di una momentanea distrazione di Mevio, da lui non provocata.

Alla luce di quanto detto e considerata l’applicabilità delle circostanze menzionate di cui all’art. 61 n. 5) e n. 11) c.p., entrambe le fattispecie di reato astrattamente imputabili a Tizio risultano procedibili d’ufficio. Si rileva altresì che è prospettabile la possibile applicazione di misure cautelari personali custodiali, stante il rispetto dei limiti edittali previsti dal combinato disposto degli artt. 280 e 278 c.p.p., laddove ritiene eccezionalmente computabile la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 5) c.p..

Tale conclusione appare verosimile anche in considerazione del compromesso quadro indiziario riferibile a Tizio. Con riferimento ai gravi indizi di colpevolezza potranno assumere valore le registrazioni delle telecamere di videosorveglianza presenti in loco.

In ordine, poi, alla sussistenza di esigenze cautelari, rilevano la recidivanza specifica di Tizio, la premeditazione e l’essersi dato alla fuga una volta consumato il reato.

Da ultimo, appare sussistere tra i reati posti in essere da Tizio il vincolo della continuazione di cui all’art. 81 comma 2 c.p. Tizio potrà pertanto beneficiare del conseguente regime sanzionatorio di favore.