Traccia Parere Civile Nr. 1 – Esame Avvocato 2017

In data 9 febbraio 2015, Caia, di 86 anni, e sua nipote Mevia di 43 anni stipulano con l’assistenza del notaio Sempronio un contratto del seguente tenore: Caia trasferisce a Mevia la nuda proprietà dell’appartamento in cui vive, sito nel centro della città e composto da 5 vani più servizi, esteso 150 mq e del valore di circa 500 mila euro, riservando per se l’usufrutto dello stesso. In cambio Mevia si impegna ad offrire quotidiana assistenza alla zia (sola e ammalata) provvedendo alle sue esigenze alimentari, alla pulizia della casa al supporto della somministrazione di farmaci, nonché al sostegno per ogni spostamento necessario.

Dopo circa un anno, però, Caia contatta il proprio legale, lamentandosi che Mevia da circa 6 mesi ha di fatto cessato di assisterla.

In tale occasione la stessa rappresentava, inoltre, che prima della stipula le era stata diagnosticata una patologia oncologia non curabile con un’aspettativa di vita non superiore a due anni e che era stata proprio la nipote Mevia portata a conoscenza di tale triste notizia a convincerla a sottoscrivere il contratto.

Il candidato, assunte le vesti del legale di Caia, rediga un motivato parere illustrando le questioni sottese al caso in esame e individuando le possibili azioni a tutela delle ragioni della propria assistita.

Soluzione proposta

Ai fini di una corretta risoluzione della tematica in esame occorre in primo luogo procedere alla esatta qualificazione giuridica del contratto stipulato tra Caia e Mevia.

Infatti, una volta stabilita la natura giuridica di tale pattuizione si potranno trarre le corrette conseguenze in punto di disciplina, con particolare riferimento ad eventuali profili patologici della causa e del sinallagma contrattuale.

Da ultimo, si tratteggeranno i rimedi esperibili dalla contraente frustrata nelle sue aspettative.

Procedendo nell’ordine logico proposto si procede in primo luogo alla qualificazione del contratto.

Sulla base degli elementi offerti dalla traccia, appare ragionevole definire la pattuizione stipulata innanzi al notaio quale atipico “contratto di mantenimento” o di “vitalizio alimentare”.

Sul punto si segnala la sentenza n. 11290 del 09/05/2017, la II sezione civile della Suprema Corte di Cassazione con la quale ha chiarito la natura giuridica del c.d. “vitalizio alimentare”, riconfermando il proprio consolidato indirizzo interpretativo secondo cui tale figura si differenzierebbe dalla figura tipica di rendita vitalizia, prevista dal nostro Codice civile agli artt. 1872 e seguenti.

Per “vitalizio alimentare”, si intende quel contratto atipico con il quale “una parte si obbliga, in corrispettivo dell’alienazione di un immobile o della attribuzione di altri beni od utilità, a fornire all’altra parte vitto, alloggio ed assistenza, per tutta la durata della vita ed in correlazione ai suoi bisogni”.

Tale figura contrattuale, secondo l’ormai consolidato indirizzo della Suprema Corte, si differenzierebbe dal contratto tipico di rendita vitalizia principalmente per tre ordini di ragioni:

  1. la differente natura delle prestazioni all’interno delle due figure (solo dare nella rendita vitalizia; dare e facere nel vitalizio alimentare);
  2. il carattere “accentuatamente spirituale” delle prestazioni all’interno del vitalizio alimentare (a differenza che nella rendita);
  3. la differente alea riscontrabile nelle due figure, senz’altro più marcata nel vitalizio alimentare: in quest’ultimo contratto infatti le esigenze del beneficiario, che dovranno essere soddisfatte dall’obbligato, saranno maggiori e più varie, e dunque non determinabili a priori (ciò a differenza che nella rendita vitalizia, dove l’entità delle prestazioni è predeterminata fin dall’inizio e normalmente invariabile, essendo solo incerto per quanto tempo dovranno essere erogate al beneficiario).

Nel vitalizio alimentare, secondo la Suprema Corte, fondamentale sarebbe il riferimento allo stato di bisogno del vitaliziato, in mancanza del quale non sarebbe possibile ritenere sussistente tale figura contrattuale.

In buona sostanza, il vitalizio alimentare è, a differenza della rendita vitalizia, un contratto fondato sull’intuitus personae, nel quale il vitaliziante è tenuto a tutta una serie di prestazioni non predeterminate né predeterminabili (poiché attinenti, ad esempio, alla salute del beneficiario o, più in generale, alla cura della sua persona da un punto di vista sia materiale che morale).

La differenza tra le due figure contrattuali (non essendo il vitalizio alimentare una sottospecie di rendita vitalizia) impone l’applicabilità della disciplina della rendita vitalizia solo in quanto compatibile.

Va altresì notato che parte della dottrina distingue il “vitalizio alimentare” dal “contratto di mantenimento” (mentre la giurisprudenza di fatto li assimila).

Più precisamente, secondo la dottrina:

  • il contratto di mantenimento corrisponderebbe alla figura fin qui esaminata, avente ad oggetto una prestazione infungibile di dare et facere, ad esecuzione continuata, consistente in un’assistenza non solamente materiale, ma anche morale, che sarebbe svincolata, peraltro, dallo stato di bisogno del mantenuto (dovendosi piuttosto assicurare a quest’ultimo un certo tenore di vita);
  • il vitalizio alimentare, invece, avrebbe ad oggetto la corresponsione, vita natural durante, degli alimenti (intesi come quanto necessario per vivere: cibo, vestiario, alloggio, cure mediche), e avrebbe dunque ad oggetto un’assistenza meramente materiale (e non anche morale), di carattere più limitato di quanto accade nel contratto di mantenimento, rispetto al quale la prestazione è collegata all’insorgenza dello stato di bisogno in capo al beneficiario.

Ad ogni modo su tali figure contrattuali i punti fermi sono:

  • il contratto di mantenimento (definito dalla giurisprudenza di legittimità come “vitalizio alimentare”) è una figura che si differenzia dalla rendita vitalizia sotto il profilo della prestazione di assistenza, poiché:
  • ha ad oggetto una prestazione ad esecuzione continuata (e non periodica come quella della rendita): infatti nella rendita vitalizia la prestazione è sempre la medesima e viene erogata a scadenza fissa, mentre nel mantenimento le prestazioni vengono erogate a seconda delle esigenze del beneficiario, senza scadenze fisse e senza soluzione di continuità;
  • è un contratto fondato sull’intuitus personae, poiché ha ad oggetto una prestazione di carattere infungibile, comprendente un’assistenza di carattere sia materiale (cibo, vitto, alloggio, spese mediche ecc.) che morale (es. compagnia).

Caratteristica essenziale di questa tipologia contrattuale è la sua aleatorietà.

Infatti il contratto di mantenimento è per natura incerto (e dunque aleatorio), poiché il contraente non può sapere con precisione il valore della sua prestazione, essendo commisurato alla vita del beneficiario. Questo rischio è elemento essenziale di questo particolare accordo, pertanto, se manca, determina la nullità del contratto di mantenimento.

La natura delle prestazioni incombenti in capo Mevia inducono a qualificare la pattuizione in esame quale “contratto di mantenimento” o di “vitalizio alimentare” (sebbene attenta dottrina distingua le due figure in base all’ampiezza delle prestazioni dedotte in contratto).

Chiarita la qualificazione giuridica, occorre ora procedere all’analisi degli eventuali profili patologici.

Innanzitutto, assume rilevanza la circostanza che Mevia fosse a conoscenza della patologia oncologica da cui era affetta Caia e della breve aspettativa di vita di quest’ultima.

Tale consapevolezza determina, ad avviso della giurisprudenza assolutamente prevalente, la nullità del “contratto di mantenimento” o “vitalizio alimentare” per nullità della causa, venendo meno l’aleatorietà delle prestazioni.

Sul punto è significativa una recente sentenza che ha stabilito che:

“Il contratto atipico cosiddetto di mantenimento (o di vitalizio alimentare o assistenziale) è essenzialmente caratterizzato dall’aleatorietà, la cui individuazione postula effettivamente la comparazione delle prestazioni sulla base di dati omogenei, ovvero la capitalizzazione delle rendite e delle utilità periodiche dovute nel complesso al vitaliziante, secondo un giudizio di presumibile equivalenza o di palese sproporzione da impostarsi con riferimento al momento di conclusione del contratto e al grado e ai limiti di obiettiva incertezza, sussistenti a detta epoca, in ordine alla durata della vita e alle esigenze assistenziali del vitaliziato. L’alea deve, comunque, escludersi e il contratto va dichiarato nullo se, al momento della conclusione, il beneficiario stesso fosse affetto da malattia che, per natura e gravità, rendeva estremamente probabile un rapido esito letale, e che ne abbia in effetti provocato la morte, dopo breve tempo, o se questi avesse un’età talmente avanzata da non poter certamente sopravvivere, anche secondo le previsioni più ottimistiche, oltre un arco di tempo determinabile.”
Cassazione civile, sez. II, 23/11/2016, n. 23895.

Detto in altre parole, l’età avanzata della beneficiaria ed il precario stato di salute che rende certo un imminente esito letale, ha determinato il venir meno dell’alea del contratto, determinandone così la nullità.

Ma non è tutto.

Mevia si è altresì resa inadempiente rispetto alle prestazioni oggetto del contratto (da 6 mesi non prestava più assistenza).

Sul punto una recente Cassazione ha stabilito che:

“Nel contratto atipico di vitalizio alimentare con cessione della nuda proprietà dell’immobile, l’inadempimento di prendersi cura sotto il profilo materiale e morale del proprietario della casa si ripercuote sul diritto ad acquisire la proprietà dell’immobile. La Cassazione ha nel caso di specie confermato la decisione dei giudici di merito che avevano affermato la risoluzione del contratto per inadempimento, in quanto il beneficiario non aveva mai prestato assistenza alla nuda proprietaria, dando ragione a un erede della proprietaria deceduta.”
Cassazione civile, sez. III, 21/06/2016, n. 12746.

Secondo la Cassazione, si verifica un vero e proprio inadempimento contrattuale soggetto alla generale disciplina dell’art. 1453 c.c. e non invece dell’art. 1878 c.c.. La ragione dell’esclusione dell’applicabilità di questo articolo va ricercata nella infungibilità delle prestazioni che connotano il vitalizio alimentare, per loro natura non soggette ad esecuzione forzata.

I rimedi sono, quindi, quelli previsti dall’art. 1453 c.c.: risoluzione del contratto ed eventuale risarcimento del danno.

Tirando le fila si possono rassegnare le seguenti conclusioni:

  • il contratto stipulato da Mevia e Caia è qualificabile – per la natura delle prestazioni – come atipico contratto di mantenimento o di vitalizio alimentare, che è connotato dalla aleatorietà;
  • le condizioni di età avanzata della beneficiaria e del suo precario stato di salute (noto a Mevia) fanno venire meno l’alea del contratto e ne determinano la nullità per difetto di causa (Cass. 23895/2016);
  • l’inadempimento di Mevia, espone la stessa a subire eventualmente una azione di risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1453 c.c. con risarcimento del danno (Cass. 12746/2016). Ovviamente, posto che l’azione di risoluzione del contratto presuppone la validità del contratto, sarà esperibile solo in via subordinata qualora non venga accolta la domanda di nullità;
  • si consiglia a Caia di convenire in giudizio Mevia facendo valere in via principale la nullità (dimostrando che Mevia era a conoscenza della patologia) e in subordine la risoluzione del contratto (per inadempimento grave degli obblighi di Mevia).

Traccia Parere Civile Nr. 2 – Esame Avvocato 2017

In data 9 febbraio 2016 Tizio, marito di Caia, al settimo mese di gravidanza, viene travolto e ucciso mentre attraversa la strada sulle strisce pedonali da un’auto condotta da Sempronio.

In data 15 aprile 2016 nasce Caietta, figlia di Caia e del defunto Tizio. Caia si rivolge al proprio legale di fiducia, dolendosi del fatto che Caietta, a causa del fatto illecito di Sempronio sia nata senza il padre, accusando così un danno permanente e significativo che la segnerà per tutta la vita.

In tale occasione Caia riferisce di aver già sottoposto la questione alla società assicuratrice dell’autovettura di Sempronio, che sta curando la pratica di ristoro del danno in suo favore, sentendosi tuttavia opporre l’insussistenza di un danno risarcibile in favore di Caietta, in quanto questi al momento del decesso del padre non era ancora nata.

Il candidato, assunte le vesti del legale di Caia, premessi i cenni sullo stato giuridico del concepito, rediga motivato parere esaminando le questioni sottese al caso in esame.​

Soluzione proposta

Il parere sottoposto all’attenzione del candidato richiede di valutare la risarcibilità del danno da perdita di un prossimo congiunto in favore del soggetto concepito, ma non ancora nato, al momento del verificarsi della morte.

La vicenda delineata concerne la fattispecie in cui Tizio, marito di Caia, al settimo mese di gravidanza, perde la vita in seguito ad un sinistro stradale causato dalla condotta colposa di Sempronio.

Successivamente, venuta alla luce Caietta, la madre Caia intende domandare alla società assicuratrice dell’autovettura di Sempronio il risarcimento per tutti i danni subiti dalla figlia Caietta, avendo la stessa subito un pregiudizio permanente e significativo delle proprie condizioni di vita.

Per una più compiuta e ordinata risoluzione dei quesiti proposti, si rende necessario, in primo luogo, premettere brevi cenni sullo stato giuridico del concepito, valutando l’ammissibilità del risarcimento dei danni subiti durante la fase della gestazione.

Risolta positivamente la prima questione, sarà necessario individuare i danni concretamente risarcibili a seguito della perdita di un prossimo congiunto.

Procedendo secondo l’ordine logico proposto, si affronta in primo luogo l’annosa querelle sullo stato giuridico del concepito e, in particolare, sull’ammissibilità di una sua tutela risarcitoria.

Tale questione è stata oggetto di accesi dibattiti nella passata dottrina e giurisprudenza, che possono ora dirsi definitivamente superati dalla sentenza Cass. S.U. 2015/25767.

In passato la tesi tradizionale tendeva ad escludere che i danni subiti nella fase di gestazione trovassero tutela risarcitoria (Cass. 1973/3467), sul presupposto che il nascituro sarebbe sprovvisto di soggettività e di capacità giuridica, che acquista esclusivamente al momento della nascita (art. 1 c.c.). In particolare, si affermava che il concepito sarebbe titolare di una capacità sospensivamente condizionata all’evento nascita, ma in ogni caso limitata a taluni specifici diritti patrimoniali (art. 462 e 784 c.c.).

Inoltre, si sosteneva che per la configurabilità di un diritto risarcitorio è necessaria la realizzazione del danno nel momento in cui il soggetto sia in vita, in quanto è al momento dell’evento lesivo che deve valutarsi se vi sia un soggetto passivo che ha subito la lesione di diritti protetti dall’ordinamento.

Infine, si tendeva a far rientrare il feto nella categoria delle cose, ossia come “parte” del corpo della madre, e non come soggetto di diritto.

Il superamento di tale tesi è stato determinato dalle esigenze sociali che chiedevano di tutelare più adeguatamente la vita sin dal suo inizio.

In primo luogo, la ricerca scientifica ha dimostrato che il concepito ha una propria limitata soggettività, ben distinta da quella della madre e, pertanto, non è mera “parte” di questa: dunque il concepito può subire dei danni, in modo distinto rispetto alla gestante.

È stato osservato, inoltre, che il sistema mira a tutelare il danneggiato, senza considerare il momento del compimento del fatto, nel caso in cui l’evento lesivo abbia determinato illeciti permanenti (Cass. 2014/1361). Infatti, è stata del tutto superata la concezione secondo cui è necessaria la sussistenza ab origine di un rapporto intersoggettivo tra danneggiato e danneggiante (Cass. 1993/11503), in quanto, una volta accertata l’esistenza di un rapporto di causalità tra un comportamento colposo, anche se anteriore alla nascita, ed il danno che ne sia derivato al soggetto che con la nascita abbia acquistato la personalità giuridica, sorge e deve essere riconosciuto a quest’ultimo il diritto al risarcimento.

Sulla scorta di tali argomentazioni, la giurisprudenza più recente afferma che alla tutela giuridica del nascituro può pervenirsi senza postularne una piena soggettività, bensì considerandolo quale “oggetto di tutela” (Cass. 2015/25767, Corte Cort. 1975/27), ossia destinatario di tutele oggettive apprestate dall’ordinamento per proteggere gli interessi rilevanti per il feto, tutelando la vita e la dignità del concepito, in ogni caso prescindendo dal riconoscimento di una sua piena soggettività giuridica.

Si osserva, infatti che diverse norme dell’ordinamento prevedono obbiettive tutele per il concepito:

  • l’art. 1, co.1, della l. 40/2004, in materia di procreazione medicalmente assistita, annovera tra i soggetti tutelati anche il concepito;
  • l’art. 1 della l. 194/1978, in materia di tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, retrodata la tutela della vita umana anteriormente alla nascita;
  • la l. 405/1975, in materia di consultori familiari, afferma l’esigenza di tutelare la salute del concepito;
  • l’art. 254 c.c. prevede il riconoscimento del figlio concepito, anche se non ancora nato.

Anche in ambito internazionale diverse norme tutelano il concepito:

  • l’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 tutela la vita di ogni uomo, incluso il concepito;
  • la Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo del 1959 prevede che la vita debba trovare tutela anche prima della nascita;
  • la Carte dei diritti dell’UE tutela la vita sin dal suo inizio.

In ragione di tale evoluzione giurisprudenziale e normativa, va affermato che l’ordinamento attuale riconosce al concepito di essere destinatario di tutele che si pongono quale obbiettivo quello di proteggere la sua vita: il soggetto nato dopo la morte del genitore e che abbia subito danni nella fase della gestazione può, pertanto, chiedere il risarcimento di detti danni, essendo il risarcimento condizionato esclusivamente all’evento nascita, che costituisce una vera e propria condicio iuris del risarcimento, escludendosi che possano agire per il risarcimento persone non nate.

Solo al momento della nascita, infatti, si verifica la propagazione intersoggettiva degli effetti dell’illecito nei confronti dei diritti del nascituro.

Risolta la prima questione, è necessario esaminare la questione dell’ammissibilità del risarcimento del danno da uccisione di prossimo congiunto, ossia il danno consistente nella definitiva perdita del rapporto parentale.

In primo luogo va osservato che la relazione con un prossimo congiunto integra un rapporto affettivo ed educativo che la legge protegge perché è fattore di una più equilibrata formazione della personalità: il figlio che sia stato privato del rapporto con uno dei genitori può riportare un pregiudizio che costituisce un danno ingiusto.

In particolare, il soggetto che chiede “iure proprio” il risarcimento del danno subito in conseguenza della uccisione di un congiunto lamenta l’incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute del quale è titolare (la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità biopsichica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale, la cui tutela, agevolmente ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo. L’interesse fatto valere nel caso di danno da uccisione di congiunto è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera ma piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.

Si tratta di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione apre la via ad un risarcimento (o meglio: ad una riparazione) ai sensi degli artt. 2059 c.c. e 2, 29, 30 Cost., senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso, vertendosi in tema di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.

Il danno non patrimoniale da uccisione di congiunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, si colloca quindi nell’area dell’art. 2059 c.c. in raccordo con le suindicate norme della Costituzione.

Il suo risarcimento postula tuttavia la verifica della sussistenza degli elementi nel quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043 c.c. L’art. 2059 c.c. non delinea una distinta figura di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, consente, nei casi determinati dalla legge, anche la riparazione di danni non patrimoniali (eventualmente in aggiunta a quelli patrimoniali nel caso di congiunta lesione di interessi di natura economica e non economica) (Cass. 2003/ 8827).

Tuttavia, il danno non patrimoniale da uccisione di congiunto non è in re ipsa e come tale deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento:

“Consistendo in un pregiudizio che si proietta nel futuro, può essere provato con il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni, sulla base degli elementi obiettivi che è onere del danneggiato fornire. La sua liquidazione avviene in base a valutazione equitativa che tenga conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti.”
(Cass. 2011/7728)

Peraltro, va osservato che la perdita di un prossimo congiunto può determinare anche un danno patrimoniale ingente:

“Dall’un lato, si configura un danno emergente, consistente ad esempio nelle spese funerarie occorrenti; dall’altro lato, l’evento dannoso determina un lucro cessante, ossia la perdita delle legittime aspettative economiche del figlio rispetto al patrimonio presente e futuro/potenziale del genitore.”
(Cass. 18177/2007)

Anche per tale voce di danno dovrà essere fornita prova specifica e circostanziata e, in ogni caso, lo stesso potrà trovare ristoro in via equitativa.

E difatti, recentemente la Suprema Corte ha affermato che:

“Anche il soggetto nato dopo la morte del padre naturale, verificatasi durante la gestazione per fatto illecito del terzo, ha diritto nei confronti del responsabile al risarcimento del danno per la perdita del relativo rapporto e per i pregiudizi di natura non patrimoniale e patrimoniale che gli siano derivati.”
(Cass. 2011/9700)

Sulla scorta delle argomentazioni svolte, si può ora offrire una completa risoluzione al quesito proposto.

Non vi sono dubbi che l’evento lesivo ascrivile a Sempronio abbia determinato un danno ingiusto nei confronti di Caietta.

Tale danno consiste, in primo luogo, nella perdita del legame parentale con il genitore e si configura, sotto questo profilo, quale lesione di interessi costituzionali meritevoli di tutela secondo l’ordinamento: l’uccisione del congiunto comporta un danno consistente nella perdita di valori affettivi familiari e determina un danno allo sviluppo della personalità di Caietta.

Tale voce di danno dovrà essere provato, anche attraverso una valutazione prognostica, come dovrà essere provato anche il danno emergente e il lucro cessante causati dalla perdita del padre.

In conclusione, si ritiene che Caia potrà agire, in qualità di titolare della responsabilità genitoriale e perciò legale rappresentante di Caietta, al fine di far accertare i danni subiti dalla stessa in conseguenza dell’evento lesivo ascrivile a Sempronio.

In particolare, potrà domandare il ristoro del danno non patrimoniale, consistente nella perdita del rapporto parentale, nonché il danno patrimoniale, sotto il profilo del danno emergente e del lucro cessante: entrambe le categorie del danno potranno essere provate attraverso valutazioni prognostiche e probabilistiche.

L’azione potrà essere proposta direttamente nei confronti dell’assicurazione ex art. 144 cod. ass.: tuttavia, prima di esperire l’azione giudiziale, Caia dovrà esperire il procedimento di negoziazione assistita, obbligatoria nel caso di danni causati da circolazione di veicoli.