Traccia Parere Penale Nr. 1 – Esame Avvocato 2018

Tizio e Caia, sposati da circa 10 anni e residenti in Italia, si recano all’estero per fare ricorso alla fecondazione eterologa e portare a termine una gravidanza con surrogazione di maternità (consentita dalle leggi in vigore in loco). In particolare, la tecnica cui ricorrono i coniugi prevede la formazione di un embrione in vitro con metà del patrimonio genetico del padre e l’altra metà proveniente da una donna ovo-donatrice. L’embrione così generato viene impiantato nell’utero di una terza donna, maggiorenne e volontaria, che porta a termine la gravidanza. Per effetto del ricorso alle menzionate procedure, i due divengono – secondo la legge straniera – genitori di Sempronio.

Al fine di ottenere la trascrizione in Italia dell’atto di nascita formato dall’ufficiale di stato civile straniero, i coniugi compilano e presentano all’ambasciata i documenti necessari ai sensi di legge, dichiarando, in particolare, che Caia è madre di Sempronio. L’ufficiale di stato civile del comune di residenza dei coniugi registra l’atto di nascita attribuendo al neonato lo stato di figlio di Tizio e di Caia.

Successivamente, però, i predetti ricevono una convocazione da parte della locale Procura della Repubblica. Preoccupati per le possibili conseguenze penali delle proprie azioni, si rivolgono dunque al proprio legale di fiducia per un consulto.

Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio e Caia, premessi cenni sulla punibilità in Italia del reato commesso all’estero, rediga motivato parere esaminando le questioni giuridiche sottese al caso in esame.

Soluzione proposta – Parere Penale Nr. 1

Il caso sottoposto all’attenzione dello scrivente richiede di valutare la penale responsabilità dei coniugi Tizio e Caia per avere questi fatto ricorso alla maternità surrogata all’estero ed aver presentano all’ambasciata i documenti necessari per registrare l’atto di nascita del figlio Sempronio.

Per una più compiuta risoluzione della questione sottesa alla traccia, sarà necessario svolgere brevi cenni sulla punibilità in Italia del reato commesso all’estero per poi approfondire le diverse ipotesi delittuose previste dall’art. 567 c.p., 495 c.p. e 12, comma 6, legge 40/04.

Viene in rilievo, con riguardo alla prima tematica, anzitutto l’art. 3 c.p. il quale prevede che “1. la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovino nel territorio dello stato salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. 2. La legge penale italiana, obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri si trovano all’estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale.

Secondo quanto previsto dal legislatore, dunque, la legge penale nazionale trova applicazione con riferimento a tutti i fatti criminosi commessi nel territorio dello Stato, indipendentemente dalla circostanza che a commetterli e a subirli sia un cittadino italiano, ovvero uno straniero: si tratta del c.d. principio di territorialità, che fissa entro i confini del territorio dello Stato l’ambito di efficacia spaziale della legge penale.

Il suddetto principio non può qualificarsi però come assoluto, soffrendo tutta una serie di limitazioni e deroghe in corrispondenza di fattispecie caratterizzate da elementi di internazionalità, rispetto alle quali vengono in rilievo specifiche esigenze repressive, che esso, per il suo contenuto non è in grado di soddisfare.

Deroghe a tale principio si rinvengono agli artt. 3, comma 2, 7, 8, 9, e 10 c.p. relativamente a determinate tipologie di reati commessi all’estero dal cittadino italiano o dallo straniero, esse trovano la loro ratio giustificatrice nel: principio di universalità della legge penale, secondo il quale la legge dello Stato dovrebbe trovare applicazione nei confronti di tutti gli uomini, ovunque si trovino (ad es. art. 7 c.p.); nel principio di personalità attiva, nella cui ottica l’autore del reato deve sottostare alla legge penale del proprio stato di appartenenza (ad es. art. 9 – norma che assumerà particolare rilievo nel caso in esame); nel principio di tutela o difesa, per il quale deve sempre farsi applicazione della legge dello Stato cui appartiene il soggetto passivo del reato.

Proprio per la presenza di tutte queste eccezioni, l’orientamento prevalente ritiene che vi sia un c.d. principio di territorialità temperato.

Esaurita brevemente questa prima questione, giova soffermarsi sulle fattispecie incriminatrici sopra indicate.

Con riferimento al delitto di alterazione di stato, questi è punito dall’art. 567 c.p. il quale prevede che “chiunque, mediante la sostituzione di un neonato, ne altera lo stato civile è punito con la reclusione da tra a dieci anni. Si applica la reclusione da cinque a quindici anni a chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità“.

La norma in esame introduce due distinte ipotesi di reato: alterazione di stato mediante sostituzione e alterazione di stato mediante falsificazione.

Al fine che qui rileva si analizzerà il secondo comma dell’art. 567 c.p.

Più in particolare, tale norma prevede l’ipotesi di alterazione dello stato civile del neonato mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità. Nello specifico, l’illecito in parola ricorre quando, all’atto della compilazione dell’originale dell’atto di nascita da parte del pubblico ufficiale, a causa delle predette falsità, viene attribuito al neonato uno status diverso da quello che gli dovrebbe spettare secondo natura (Cass. Pen. Sez. VI, 03/10/1995, n. 11425).

L’interesse giuridico tutelato dalla norma è rappresentato dalla verità dell’attestazione ufficiale della propria ascendenza.

Il reato si realizza dunque quando si verifica una sostituzione ideologica e non uno scambio materiale di neonati.

L’elemento soggettivo è rappresentato dal dolo generico, che consiste nella coscienza e nella volontà di causare l’alterazione di stato mediante la condotta tipica sopra descritta.

Per quanto attiene al soggetto attivo del reato, mentre minoritaria dottrina ritiene che sia un’ipotesi di reato proprio, l’orientamento prevalente ritiene che si tratti di un reato comune, posto che la falsa dichiarazione all’ufficiale di stato civile potrebbe essere resa anche da un terzo estraneo che assuma di essere genitore del neonato.

La condotta attiva consiste nel fare false certificazioni, false attestazioni o altre falsità.

In sostanza, l’ipotesi di reato prevista dall’art. 567, comma 2, c.p. si realizza ogni volta che, in un atto di nascita, venga attribuito ad un infante lo stato di figlio, non importa se legittimo o naturale, di una persona che non lo abbia realmente generato, poiché, con questa norma, il legislatore ha inteso tutelare l’interesse del minore alla verità dell’attestazione ufficiale della propria ascendenza.

Proprio con riferimento alla condotta esplicitata, quindi, pare opportuno chiedersi se, l’attribuzione – nell’atto di nascita – dello stato di figlio quale figlio di Tizio e Caia costituisca alterazione di stato ai sensi del 567, comma 2: tale quesito è giustificato dal fatto che Sempronio è nato a seguito di surrogazione di parto, con formazione in vitro di un embrione con metà del patrimonio genetico di Tizio e l’altra metà proveniente da una donna ovo-donatrice. Embrione poi impiantato nell’utero di un’altra donna.

Sul punto, viene in rilievo una recente sentenza della Corte di Cassazione la quale, in un caso analogo, ha rilevato come in una simile ipotesi difetti tanto l’elemento oggettivo quanto l’elemento soggettivo.

Ed invero, la Cassazione ha evidenziato che se la legislazione straniera consente di fare ricorso alla c.d. maternità surrogata eterologa, cioè con un impianto e gestazione da parte di una donna terza rispetto alla coppia di ovuli conferiti da una donatrice, anch’essa terza rispetto alla coppia, e fecondati in vitro e dall’altro lato, il nato sia considerato dalla legge figlio dei coniugi committenti, con conseguente indicazione quale genitrice, nel certificato straniero, della madre c.d. sociale, seppure non biologica, difetti tanto l’elemento oggettivo quanto l’elemento soggettivo.

L’ambito di tutela e i presupposti per l’incriminazione sono mutati con l’evolversi nel tempo del concetto di stato di filiazione, non più legato ad una relazione necessariamente biologica, ma sempre più considerato quale legame giuridico.

Nel quadro legislativo attuale, il concetto di discendenza non ha, dunque, riguardo soltanto ad un fatto genetico, ma assume una connotazione giuridico-sociale, dal momento che, oltre al legame biologico tra genitore e figlio, viene conferita dignità anche a un legame di genitorialità in assenza di una relazione genetica, in quanto conseguente alle tecniche di fecondazione artificiale, secondo la disciplina fissata dalla citata legge n. 40/04.

A tal proposito, inoltre, nel dichiarare l’incostituzionalità del divieto di procreazione medicalmente assistita (PMA) eterologa per difetto di ragionevolezza, la Corte Costituzionale ha rilevato come la Costituzione non presupponga una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, sia favorevolmente considerata dall’ordinamento giuridico, in applicazione dei principi costituzionali, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione (Corte. Cost. 162/2014).

Di conseguenza, non è possibile ritenere integrato l’elemento oggettivo del reato in esame.

A tal riguardo, giova sottolineare come la suprema Corte affermi che “secondo la normativa nazionale, è infatti considerato figlio di una coppia tanto il neonato generato con almeno l’uno o l’altro dei gameti (ovociti o spermatozoi) provenienti da uno dei due componenti della coppia quanto il neonato generato con entrambi i gameti donati da terzi persone.” (Cass. pen. 11/10/2016, n. 48696).

Altresì, un eventuale rifiuto della trascrizione del certificato di nascita si porrebbe in contrasto con quanto affermato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con particolare riferimento all’art. 8 CEDU, in quanto nocivo della vita familiare, dell’identità delle persone e del diritto al rispetto della vita privata del minore.

Ma vieppiù.

Anche con riferimento all’elemento soggettivo, in ogni caso, si deve ritenere che difetti il dolo generico e cioè la coscienza e volontà di rendere una dichiarazione non rispondente alla realtà con specifico riguardo allo stato civile di un neonato.

Nel caso di specie, infatti, i coniugi non hanno avuto la volontà di rendere consapevolmente una dichiarazione tesa ad alterare lo stato civile del figlio Sempronio, atteso che, nell’atto di nascita in aderenza alla lex soci, il minore risultava quale figlio della coppia e dunque con indicazione di Caia quale madre, seppure solo sociale e non biologica (Cass. pen. 11/10/2016 n. 48696).

Svolta la trattazione di questa prima fattispecie diviene quindi necessario svolgere una breve disamina della fattispecie di cui all’art. 495 c.p., al fine di escluderne l’integrazione.

Tale norma, rubricata falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sull’identità o su qualità personali proprie o di altri, dispone che “chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale, l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona è punito con la reclusione da uno a sei anni. La reclusione non è inferiore a due anni: 1) se si tratta di dichiarazioni in atti dello stato civile; 2) se la falsa dichiarazione sulla propria identità, sul proprio stato o sulle proprie qualità personali è resa all’autorità giudiziaria […]“.

Il bene giuridico tutelato è la fede pubblica mentre il soggetto attivo può essere chiunque, trattandosi di reato comune.

La condotta consiste in una falsa dichiarazione o attestazione, sia scritta che orale.

L’elemento soggettivo del reato è il dolo generico costituito dalla coscienza e volontà di alterare un contrassegno personale, non essendo rilevante il fine perseguito dall’autore della falsità personale.

Ebbene, nel caso in esame, analoghe considerazioni possono essere svolte circa la mancata integrazione sia dell’elemento oggettivo che dell’elemento soggettivo.

Più in particolare, non si può considerare integrata la condotta di falso, atteso che la condotta posta in essere dai coniugi all’estero era consentita dalla lex soci; per di più, è proprio la legislazione straniera ad attribuire la qualifica di madre sociale a Caia, escludendo dunque la sussistenza di una falsa dichiarazione.

Analogamente, non può ritenersi integrato l’elemento soggettivo del dolo generico, posto che la norma richiede la coscienza e volontà di rendere una falsa dichiarazione: coscienza e volontà che, nel caso di specie, difettano essendo i coniugi convinti di aver posto in essere una condotta lecita secondo l’ordinamento straniero.

Da ultimo, alla luce della problematizzazione sopra resa, viene in rilievo l’art. 12, comma 6, legge 40/04 ove il legislatore punisce “chiunque, in qualsiasi forma, realizza organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro“.

A ben vedere, dunque, i coniugi che si recano all’estero per ricorrere ad una tecnica di surrogazione di parto, pongono in essere il reato previsto dalla disposizione in esame di cui all’art. 12, comma 6, della legge n. 40/04.

Tuttavia, essendo tale reato commesso all’estero, si deve ritenere che trovi applicazione l’art. 9 c.p., comma 1, rubricato “delitto comune del cittadino all’estero“, il quale prevede che “il cittadino che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti, commette in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana stabilisce l’ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, è punito secondo la legge medesima sempre che si trovi nel territorio dello Stato“.

Invero, il reato di surrogazione di parto commesso all’estero dai coniugi – che prevede quale pena la reclusione da tre mesi a due anni, oltre multa – non può ritenersi punibile, non essendo integrata la soglia di punibilità di cui all’art. 9 c.p.

Concludendo, dunque, si deve ritenere che i coniugi Tizio e Caia non debbano essere considerati penalmente responsabili ai sensi degli agli artt. 567, 495 c.p., non essendo integrato l’elemento oggettivo delle fattispecie menzionate.

Più precisamente, non sussiste l’alterazione di stato allorquando vi siano dichiarazioni di nascita effettuate ai sensi del d.p.r. n. 396 del 2000, art. 15, in ordine ai cittadini italiani nati all’estero e rese all’autorità consolare sulla base del certificato redatto dalle autorità straniere che li indichi come genitori, in conformità alle norme stabilite dalla legge del luogo. (Così anche Cass. Pen., 10/03/2013 n. 13525; Cass. Pen. 11/11/2015 n. 8060).

In ogni caso, anche nell’ipotesi dovesse ritenersi sussistente l’elemento oggettivo, i coniugi Tizio e Caia dovranno essere assolti, difettando l’elemento soggettivo del dolo generico in punto di coscienza e volontà, essendo i coniugi convinti di aver posto in essere una condotta lecita secondo l’ordinamento straniero.

Infine, con riferimento al reato di cui all’art. 12, comma 6, legge n. 40/04, sebbene tale fattispecie possa ritenersi astrattamente sussistente sul piano della rilevanza concreta del fatto tipico, i coniugi non potranno essere puniti ai sensi dell’art. 9 c.p. dacché trattasi di un reato commesso all’estero che non raggiunge la soglia di punibilità ivi prevista.