Con ordinanza n. 50696 del 16 dicembre 2019, la Seconda Sezione della Corte di Cassazione ha rimesso al vaglio delle Sezioni Unite la risoluzione di una serie di annose questioni relative ai rapporti tra i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.) e di estorsione (art. 629 c.p.), e, segnatamente:

a) se i delitti sopra menzionati siano differenziabili sotto il profilo dell’elemento materiale ovvero dell’elemento psicologico;

b) nel caso in cui si ritenga che l’elemento che li differenzia debba essere rinvenuto in quello psicologico, se sia sufficiente accertare, ai fini della sussumibilità nell’uno o nell’altro reato, che la condotta sia caratterizzata da una particolare violenza o minaccia ovvero se occorra accertare quale sia lo scopo perseguito dall’agente;

c) se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni debba essere qualificato come reato comune ovvero di ‘mano propria’ e, quindi, se e in che termini sia ammissibile il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile.

Prima di procedere all’analisi dei contrasti giurisprudenziali sottesi alle questioni dianzi poste, appare opportuna una duplice precisazione.

La prima. I contrasti rilevati dalla Seconda Sezione attengono ai soli casi in cui l’aggressione alla persona è funzionale alla soddisfazione di un diritto tutelabile innanzi all’Autorità Giudiziaria, ricadendo, invece, nell’ambito applicativo del delitto di estorsione le ipotesi in cui la condotta è diretta a soddisfare pretese sfornite di siffatta tutela.

La seconda. Le divergenze interpretative registrate dalla Suprema Corte presuppongono che il rapporto tra i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione sia inquadrabile nell’istituto del concorso apparente di norme, il quale, come vedremo nel prosieguo della trattazione, viene risolto a favore dell’una o dell’altra fattispecie, a seconda dell’elemento normativo a cui viene attribuita funzione specializzante.

Passando, ora, in rassegna le questioni la cui decisione è stata rimessa al Supremo Consesso nella sua massima composizione, appare opportuno procedere alla trattazione congiunta di quelle sub lettere a) e b), atteso che quest’ultima si limita a dar conto del contrasto sviluppatosi in seno al secondo dei due macro orientamenti che si sono espressi in ordine al criterio differenziale tra il reato di cui all’art. 393 c.p. e quello di cui all’art. 629 c.p. e, nello specifico, a quello che ritiene di valorizzare il diverso elemento soggettivo dei due reati.

Ebbene, secondo un primo orientamento, che valorizza le differenze tra le fattispecie sopra menzionate sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il discrimine tra le medesime va rivenuto in base al livello di “gravità della violenza o della minaccia” adoperata dall’autore del reato (cfr. ex multis, Cass. pen., sez. II, 8.6.2017, n. 33712). In altri termini, se il delitto di c.d. ragion fattasi si caratterizza per una condotta violenta strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere un preteso diritto, il delitto di estorsione contempla manifestazioni di violenza gratuite e connotate da una forza intimidatoria tale da andare oltre l’intento di soddisfare una pretesa giuridica, fino a coartare l’altrui volontà, conseguendo così un profitto ingiusto (cfr. ex multis, Cass. pen., sez. II, 14.12.2018, n. 56400).

Tale orientamento è stato recentemente oggetto di un approfondimento da parte di talune pronunce che, pur ritenendo che la differenza tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. vada ricercata sul piano dell’elemento oggettivo, ritengono che l’attenzione dell’interprete debba essere focalizzata sull’effetto costrittivo dell’azione (cfr. Cass. pen., sez. II, 31.7.2018, n. 36928).  Ciò in quanto sia l’estorsione sia l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni si consumano attraverso l’uso della violenza e della minaccia, le quali, quindi, finiscono con il costituire il nucleo comune della condotta dei due reati e non l’elemento differenziale tra gli stessi. Tale considerazione, unitamente alla constatazione per cui graduazione della violenza non può essere normativamente prefissata, ha portato così ad affermare che l’effetto di costrizione della persona, a cui si accompagna la correlata acquisizione di un profitto ingiusto, costituisce il più autentico criterio differenziale, che consente di distinguere l’estorsione dall’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, connotato sì da violenza o minaccia, ma anche dall’evento costituito dal soddisfacimento di una pretesa ragionevolmente ritenuta legittima.

A tale orientamento se ne contrappone un secondo che individua nell’elemento soggettivo il tratto distintivo tra i due reati. Trattasi, invero, di opzione ermeneutica che si appalesa unitaria quanto al risultato cui perviene (attribuire rilevanza dirimente al profilo soggettivo e non ai connotati materiali del fatto), frammentandosi quanto all’iter logico-argomentativo seguito a tal fine.

Una prima serie di pronunce, infatti, muovendo dalla considerazione per cui anche l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, al pari della estorsione, può postulare l’uso di violenza o minaccia dotate di una rilevante carica intimidatoria – tanto che, lo stesso art. 393 c.p., al co. 3, contempla la circostanza aggravante dell’aver tenuto la condotta con l’uso di armi -, afferma che, laddove l’agente sia animato “dal fine di esercitare un suo preteso diritto nella ragionevole opinione, anche errata, della sua sussistenza, pur se contestata o contestabile”, la condotta sarà sussumibile nel delitto di cui all’art. 393 c.p., indipendentemente dalla intensità della violenza esercitata; ove, invece, “l’agente mira a conseguire un profitto ingiusto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto”, sarà configurabile il reato di estorsione (cfr. Cass. pen., Sez. II, 19.12.2013, n. 51433).

A tali pronunce se ne affiancano altre che attribuiscono valenza decisiva alle modalità di estrinsecazione della condotta, quali indici sintomatici del dolo dell’uno o dell’altro reato e, quindi, rispettivamente, di una volontà costrittiva e di sopraffazione (in relazione al delitto di estorsione) ovvero di una volontà di soddisfazione di un diritto ragionevolmente ritenuto esistente ed azionabile (in relazione al delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni). In altri termini, secondo questo filone giurisprudenziale, “l’intensità dell’azione aggressiva può indicare l’esistenza del dolo dell’estorsione, la cui sussistenza non è automaticamente esclusa dalla dimostrazione dell’esistenza di una pretesa tutelabile per via giudiziaria coperta sotto il profilo soggettivo dalla volontà dell’autore di soddisfare il suo credito” (Cass. pen., sez. II, 16.12.2019, n. 50696, p. 12).

Su tale frastagliato panorama giurisprudenziale, viene, poi, ad innestarsi la terza questione rimessa al vaglio delle Sezioni Unite, la quale, pur investendo prima facie il solo delitto di c.d. ragion fattasi, va ad incidere sui rapporti tra il medesimo e la fattispecie di cui all’art. 629 c.p.

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, infatti, rileva come, secondo l’interpretazione prevalente, l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni venga considerato alla stregua di un reato proprio esclusivo o c.d. di mano propria, caratterizzantesi per la necessità che la condotta tipica sia posta in essere dal titolare del diritto azionabile in sede giudiziaria. Tale ermeneusi si fonda principalmente su due argomenti: uno di tipo letterale, per cui la norma circoscrive l’autore del reato a colui che “si fa […] ragione da sé medesimo”; l’altro di tipo sistematico, basato sull’assunto per cui, posto che i delitti di c.d. ragion fattasi di cui agli artt. 392 e 393 c.p. sono posti a tutela del monopolio giurisdizionale nella risoluzione delle controversie, non potrebbe “mai essere tollerata l’intromissione del terzo estraneo – non titolare della pretesa giuridica fatta valere, ndr. – che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell’amministrazione della giustizia” (cfr. Cass. pen., sez. II, 3.11.2016, n. 46288).

Quale corollario ne deriverebbe che il concorso di persone nel reato di cui all’art. 393 c.p. sarebbe configurabile solo quando la condotta tipica venga posta in essere dal titolare del diritto giuridicamente tutelato, il quale intende farsi ragione da sé, e i terzi estranei offrano un contributo ‘atipico’ alla realizzazione del fatto di reato, concretantesi in un concorso per agevolazione o di tipo morale. Viceversa, per l’ipotesi del c.d. ‘terzo esattore’, che si verifica quando l’azione tipica è realizzata da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa giuridica che si intende far valere e che agisca su mandato del creditore, non potrebbe mai integrarsi il delitto di cui all’art. 393 c.p., ma esclusivamente altra fattispecie, quale l’estorsione.

Alla medesima soluzione pervengono anche quelle pronunce che, ora affermando come la condotta del terzo a cui sia stato conferito mandato per la riscossione di un credito sia dotata di una singolare forza di intimidazione (cfr. Cass. pen., sez. II, 4.7.2018, n. 36928), ora valorizzando come il terzo c.d. esattore sia spesso portatore di un proprio interesse, diverso ed ulteriore rispetto a quello del titolare del diritto (cfr. Cass. pen., sez. II, 18.3.2016, n. 11453), negano la configurabilità del concorso di persone nel reato di cui all’art. 393 c.p., propendendo per la qualificazione della condotta come estorsiva.

Sulla base di tale ricognizione dello ‘stato dell’arte’, la Seconda Sezione, pur condividendo l’impostazione di base che ritiene astrattamente configurabile il concorso di persone nel reato proprio esclusivo, qualora il terzo estraneo ponga in essere una condotta collaterale ed accessoria rispetto all’azione tipica che deve necessariamente essere posta in essere dal titolare della posizione qualificata, avanza delle perplessità quanto alla riconducibilità del delitto di c.d. ragion fattasi a tale categoria. Nello specifico, il Collegio ritiene di poter confutare gli argomenti tradizionalmente posti a suffragio di tale inquadramento, evidenziando, quanto al profilo letterale, come gli elementi costitutivi dell’art. 393 c.p. non rimandino ad alcuna qualifica o qualità specifica del soggetto agente, non ultimo ove si consideri che l’incipit del disposto normativo contiene il riferimento a ‘chiunque’, e, quanto al profilo sistematico, come la specificità del bene giuridico tutelato dall’art. 393 c.p. (il monopolio statale nella gestione dei conflitti interindividuali) non giustifichi di per sé la contrazione dell’area di operatività dell’istituto del concorso di persone nel reato.

Conseguentemente, la Seconda Sezione, rimettendo la risoluzione della questione alle Sezioni Unite, rileva come non vi siano ragioni ontologiche per escludere la natura di reato comune ovvero non esclusivo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, propendendo, così, per la configurabilità del concorso di persone in detto reato anche nell’ipotesi in cui sia il soggetto terzo a realizzare l’azione tipica e il soggetto qualificato (titolare della pretesa giuridicamente tutelata) si limiti a fornire un contributo agevolatore o solo morale alla commissione del reato.

Tirando le fila di quanto sin qui esposto, non v’è dubbio che le Sezioni Unite sono chiamate a dirimere delle questioni spinose, non ultimo considerato che le ricadute pratiche dell’inquadramento della condotta nell’una o nell’altra fattispecie delittuosa sono tutt’altro che marginali, atteso il differente trattamento sanzionatorio riservato dal Legislatore alle due ipotesi di reato: se, infatti, il delitto di c.d. ragion fattasi di cui all’art. 393 c.p. è punito con la pena della reclusione fino a un anno, l’estorsione è sanzionata con la pena della reclusione da cinque a dieci anni e della multa da 1.000 a 4.000 euro.

 

Avv. Giulia Pittarello Tringanelli