La Cassazione torna a parlare di legittima difesa ed eccesso colposo, dettando un principio generale in materia: <<non può invocare la scriminante della legittima difesa chi accetta una sfida, o reagisce a una situazione di pericolo volontariamente determinata, o alla quale ha concorso malgrado la possibilità di allontanarsi dal luogo senza pregiudizio e senza disonore».

Brevemente il fatto: Tizio veniva condannato in primo e secondo grado per omicidio volontario, per avere colpito con più fendenti di coltello il cognato Caio, soggetto violento e dedito all’utilizzo di sostanze stupefacenti, reo di aver maltrattato e minacciato più volte la sorella.

In primo e secondo grado, la difesa dell’imputato invocava la scriminante della legittima difesa, chiedendo fare applicazione, in subordine, della disciplina dell’eccesso colposo.

Secondo la difesa, Tizio aveva incontrato il cognato senza alcun intento aggressivo ed al solo fine di mediare fra il medesimo e la sorella; determinandosi a colpirlo, per difesa legittima, solo dopo essere stato spinto a terra in esito ad una accesa discussione.

Secondo i giudici di merito, però, alcuni elementi militavano per l’insussistenza della scriminante invocata:

l’imputato, scegliendo volontariamente di incontrare la vittima, pur consapevole dell’indole violenta ed aggressiva di questi nonché dell’arrivo imminente delle forze dell’ordine, aveva deliberatamente scelto di affrontarla in assenza di un pericolo attuale, senza essere spinto dalla necessità di difendere la sorella od i propri familiari, così accettando implicitamente qualunque conseguenza possibile;

l’imputato avrebbe potuto brandire il coltello, anziché utilizzarlo;

e, comunque, dopo aver inferto alcuni colpi avrebbe potuto desistere anziché perseverare nella condotta illecita, con la vittima a terra.

Di qui, la condanna dell’imputato che aveva deciso volontariamente di affrontare una situazione rischiosa, ipotizzabile sin dal principio e, quindi, evitabile.

Ricorreva in Cassazione la difesa lamentando – in specie – l’erronea applicazione della legge penale, per avere la sentenza d’appello ritenuto insussistente la scriminante della legittima difesa, o quantomeno, dell’eccesso colposo.

In sintesi estrema – secondo la difesa –  non potrebbe escludersi la scriminante dell’art. 52 c.p. (che, dunque, sarebbe sussistente) sulla scorta della volontaria accettazione, da parte dell’imputato, di una situazione di pericolo determinata senza alcun intento aggressivo.

Per la difesa, cioè, l’imputato che abbia agito in principio con intenti non aggressivi potrebbe comunque giovarsi della scriminante in parola, nonostante la consumazione dell’illecito nell’ambito di una situazione di pericolo volontariamente determinata.

Di diverso avviso è, però, la Cassazione secondo cui <<non opera la legittima difesa [nda: e per conseguenza, l’eccesso colposo] laddove l’imputato accetti una sfida o reagisca ad una situazione di pericolo volontariamente determinata o alla cui determinazione egli stesso abbia concorso e nonostante disponga della possibilità di allontanarsi dal luogo senza pregiudizio e senza onore>>.

Il principio enunciato dalla Suprema Corte è in linea con gli insegnamenti resi da dottrina e giurisprudenza, secondo cui l’art. 52 c.p. – ancorché del tutto silente in punto pericolo – va letto nel senso che esso debba essere involontario, non causato, cioè, dal soggetto agente.

La pronuncia in commento, peraltro, succede ad alcuni altri recenti arresti della Suprema Corte che – considerata l’importanza della tematica e la vicinanza contenutistica con la sentenza annotata – si ritiene utile riportare.

Per Cassazione penale, Sez. I , 13.06.2017 n. 51262 <<è configurabile l’esimente della legittima difesa solo qualora l’autore del fatto versi in una situazione di pericolo attuale per la propria incolumità fisica, tale da rendere necessitata e priva di alternative la sua reazione all’offesa mediante aggressione>>.

Nella specie, la Corte ha ritenuto di escludere la sussistenza della scriminante in parola dell’esimente in relazione alla condotta dell’imputato che aveva reagito infliggendo alla vittima una coltellata in direzione di una regione vitale del corpo, sebbene potesse allontanarsi dai luoghi ed evitare il confronto.

Analogamente, per Cassazione penale, Sez. V, 16.03.2018 n. 33837 <<è configurabile l’esimente della legittima difesa solo qualora l’autore del fatto versi in una condizione di pericolo attuale per la propria incolumità fisica, tale da rendere necessitata e priva di alternative la propria reazione all’offesa mediante aggressione, essendo la reazione necessaria solo quando inevitabile, ovvero non sostituibile da altra meno dannosa ma ugualmente idonea ad assicurare la tutela dell’aggredito>>.

Ed ancora, per Cassazione penale, Sez. V, 12.01.2018 n. 15460 <<non è invocabile la legittima difesa da parte di colui che accetti una sfida>>.

In conclusione, l’insegnamento della Suprema Corte in materia sembra possa essere così sintetizzato: lo scontro, quando possibile, va evitato, pena, in caso contrario, l’impossibilità di invocare la legittima difesa.

[avv. Davide Cappa]

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. NOVIK    Adet Toni       –  Presidente   –                     Dott. SIANI    Vincenzo   –  rel.  Consigliere  –     Dott. ROCCHI   Giacomo         –  Consigliere  –                     Dott. MAGI     Raffaello       –  Consigliere  –                     Dott. CENTONZE Alessandro      –  Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:      D.L.A. – parte civile;           P.C. – parte civile;             P.G. – parte civile; nel procedimento a carico di: S.U., nato a (OMISSIS); nel procedimento a carico di quest’ultimo; nonchè sul ricorso proposto da: S.U. nato a (OMISSIS); nello stesso procedimento; avverso la sentenza del 06/06/2016 della CORTE ASSISE APPELLO di ROMA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. VINCENZO SIANI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. ZACCO FRANCA che ha concluso nel seguente senso: Il Procuratore Generale conclude per l’inammissibilità dei ricorsi uditi i difensori: L’avvocato ROSSI ANDREA insiste per l’accoglimento del ricorso delle parti civili e chiede l’inammissibilità del ricorso dello    S. e deposita conclusioni e nota spese. L’avvocato BALZARELLI GIAMPAOLO conclude per l’accoglimento del ricorso di         S. e l’inammissibilità del ricorso delle parti civili.

Fatto
RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe, emessa il 6 giugno – 29 luglio 2016, la Corte di assise di appello di Roma, in riforma della sentenza emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma in data 22 luglio – 9 settembre 2015, appellata dal Pubblico ministero, dalla parte civile e da S.U., ha rideterminato la pena inflitta a quest’ultimo in quella di anni sei, mesi due e giorni venti di reclusione, confermando nel resto, nonchè ha condannato lo S. alla rifusione delle spese processuali in favore delle parti civili D.L.A., P.C. e P.G..

1.1. S. era stato imputato del reato di cui all’art. 575 c.p. per aver cagionato la morte di P.S. colpendolo con un coltello da cucina, avente lama di cm 31, con una serie di fendenti al capo, al volto e al torace (capo A) e del reato previsto e punito dalla L. n. 10 del 1975, art. 4 (capo B), perchè, senza giustificato motivo, aveva portato fuori dalla propria abitazione il coltello utilizzato per commettere il reato di cui al capo A), fatti commessi in (OMISSIS), con la recidiva semplice.

1.2. In primo grado l’imputato, in esito a giudizio abbreviato, era stato dichiarato responsabile dell’omicidio di P. e, con l’esclusione della recidiva, riconosciute le circostanze attenuanti generiche e della provocazione, era stato condannato alla pena di anni dodici di reclusione, oltre alle pene accessorie, e al risarcimento del danno nei confronti delle costituite parti civili, da liquidarsi in separato giudizio. Era stato, invece, assolto per il reato di cui al capo B), non essendo stato dimostrato che lo stesso avesse affrontato P. già armato.

1.3. In secondo grado la Corte di assise di appello di Roma ha escluso la sussistenza della scriminante della legittima difesa e dell’eccesso colposo nella legittima difesa.

E’ stata, invece, confermata l’attenuante della provocazione per avere, l’imputato, agito in conseguenza di uno stato d’ira provocato dalle minacce profferite dal P. nei confronti di sua sorella e dei suoi familiari, attenuante che è stata, dai giudici del gravame, applicata nella sua massima estensione insieme alle attenuanti generiche, con l’effetto che, computata anche la riduzione per il rito abbreviato, si è avuta la rideterminazione della pena in quella di anni sei, mesi due, giorni venti di reclusione.

E’ stata negata la provvisionale chiesta dalle parti civili, essendosi reputato necessario che il danno dalle stesse subito ricevesse una migliore definizione nella competente sede, tenendo in considerazione, fra gli altri elementi, anche il fatto che la madre della vittima era spesso oggetto di maltrattamenti da parte di quest’ultimo.

2. Avverso tale decisione ha proposto ricorso il difensore di S. chiedendone l’annullamento e adducendo a sostegno un unico motivo con cui lamenta, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), erronea applicazione della legge penale nonchè manifesta contraddittorietà e illogicità della motivazione, per avere, la sentenza stessa, ritenuto insussistente la scriminante della legittima difesa ex art. 52 c.p., o, quantomeno, l’eccesso colposo nella legittima difesa ex art. 55 c.p..

Per il ricorrente, quindi, quanto era stato affermato dalla Corte di assise di appello per negare la sussistenza della scriminante era in contrasto con lo svolgimento dei fatti e con i principi operanti in tema di legittima difesa, sulla base dei quali la stessa non era esclusa dalla volontaria accettazione di una situazione di pericolo senza essere animati da alcun intento aggressivo.

Pertanto, anche valutando l’azione in termini unitari, la percezione reale del pericolo da parte di S. doveva collocarsi al momento della aggressione di P. e della conseguente azione obbligata di difesa al fine di evitare di diventare bersaglio dello stesso.

Quanto alla proporzionalità della difesa, il numero di fendenti poteva far deporre per un eccesso colposo di legittima difesa, ma in realtà l’interpretazione scientifica del gesto evidenziava che l’azione dell’imputato non era supportata dalla coscienza e volontà di infierire in quelle proporzioni sul corpo della vittima.

3. Ha proposto ricorso anche il difensore delle parti civili, chiedendo l’annullamento della sentenza sulla base di due motivi.

3.1. Con il primo motivo si lamentano inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e delle norme processuali, nonchè contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e).

Ad avviso delle parti civili ricorrenti, la Corte di assise di appello aveva errato nel non concedere una provvisionale immediatamente esecutiva in quanto, nonostante mancasse la prova dell’effettiva entità complessiva del danno subito, avrebbe dovuto comunque riconoscersi quella parte di danno che poteva ritenersi accertata: la quale, nel caso di specie, trattandosi di reato di omicidio, consisteva nella quantificazione minima dei danni morali che potevano aver subito la madre ed in fratelli della vittima; la condanna generica pronunciata ai sensi dell’art. 539 c.p.p., comma 1, doveva essere una decisione “allo stato degli atti” che rifletteva un accertamento parziale della domanda civile, fondato sull’esistenza di una prova dell’esistenza del danno invocato.

Quanto ai presunti maltrattamenti subiti dalla D.L. ad opera della vittima, esse di certo non potevano scalfire le gravissime sofferenze che l’azione dello S. aveva cagionato alla madre di P. e, pur potendo limitare il riconoscimento del danno complessivo in sede civile, di certo non avevano alcun rilievo ai fini dell’esclusione della provvisionale, la quale doveva essere fondata principalmente sui danni morali comprensivi di tutte le conseguenze dell’illecito che non erano suscettibili di valutazione pecuniaria, la cui liquidazione ben poteva essere determinata in sede penale.

3.2. Con il secondo motivo si evidenziano inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e).

I ricorrenti deducono che la sentenza impugnata si era limitata ad affermare che le doglianze delle parti non mettevano in discussione la condotta dell’imputato, ma riguardavano esclusivamente la sussistenza della legittima difesa, dell’eccesso colposo e l’attenuante della provocazione quando, in realtà, sia l’impugnazione del Pubblico ministero che quella delle parti civili avevano riguardato principalmente la necessità di una rivalutazione totale della ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza di primo grado, in conseguenza della quale l’imputato aveva ottenuto un inadeguato trattamento sanzionatorio, dopo essere stato ingiustamente assolto dal reato di porto di coltello e dopo che gli era stata ingiustamente riconosciuta l’attenuante della provocazione.

L’appello delle parti civili aveva fatto notare, ad esempio, il contrasto tra la motivazione della sentenza, da un lato, e le osservazioni del medico legale e i rilievi fotografici della scena del crimine, dall’altro, evidenziavano l’inconciliabilità con le risultanze probatorie della conclusione che a portare il coltello fosse stata la vittima. Era stata altresì criticata l’attendibilità dei testimoni della difesa, doglianze alle quali la Corte di assise di appello non aveva dato alcuna risposta.

Secondo le parti civili, la motivazione era illogica e contraddittoria specialmente con riferimento al riconoscimento della provocazione, come emergeva dalle testimonianze di P.L., S.C., S.G. e D.A., i quali avevano reso dichiarazioni che escludevano la sussistenza dello stato d’ira richiesto ai fini dell’attenuante.

3. Il Procuratore generale ha chiesto dichiararsi inammissibili entrambe le impugnazioni, siccome il ricorso dell’imputato non era tale da confutare in modo efficace l’incensurabile ricostruzione di fatto e l’inquadramento giuridico esposti dalla sentenza impugnata, mentre il ricorso delle parti civili non atteneva a statuizione censurabile in questa sede, quanto al primo motivo, e non evidenziava alcun interesse delle parti stesse che potesse loro derivare dalla rideterminazione in peius per S. del trattamento sanzionatorio.

Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La Corte ritiene che entrambe le impugnazione siano infondata, la prima, in parte inammissibile e in parte infondata, la seconda, sicchè esse vanno rigettate.

2. Il punto che forma oggetto del thema devoluto dall’impugnazione proposta dalla difesa di S. con l’unico motivo sopra richiamato inerisce al mancato riconoscimento della legittima difesa o del relativo eccesso colposo.

A specificazione della doglianza sopra indicata il ricorrente sostiene che, in realtà, il suo intento non era quello di affrontare la futura vittima, ma solo quello di mediare tra la stessa e la propria famiglia facendo leva sul sostanziale rapporto di amicizia che egli aveva con P. e sul fatto che egli era ormai l’unico con cui P. avesse mantenuto un rapporto civile: infatti lo attese sotto la propria abitazione disarmato e al solo fine di farlo ragionare e di dissuaderlo da azioni aggressive, anche in considerazione del fatto che l’imputato sapeva dell’imminente arrivo delle Forze dell’ordine.

Egli fa anche notare che non aveva assistito alle liti verificatesi nei due giorni precedenti, senza averne avuto notizia anche a causa dell’omertà della famiglia, e pertanto non poteva sapere con precisione lo stato di alterazione e violenza in cui versava lo stesso P.: solo nel momento in cui si era imbattuto in P. aveva percepito il grave pericolo per la propria incolumità e per quella della propria famiglia; e P., sotto effetto di alcol e droga e forte della sua maggiore prestanza fisica, dopo una discussione verbale, si era avventato contro l’imputato spingendolo e facendolo cadere a terra, così che, solo in quel momento, S. aveva preso il coltello dell’aggressore e lo aveva colpito d’impulso, senza intenzione violenta, come risultava confermato dalla relazione del medico legale.

2.1. Sul tema va puntualizzato che la Corte territoriale ha, in sintesi, considerato come fossero da escludersi le condizioni legittimanti l’evenienza della suddetta scriminante e dell’eccesso colposo nella legittima difesa sottolineando che la condotta dell’imputato non poteva non essere valutata nella sua interezza: S., infatti, aveva volontariamente deciso di uscire di casa e andare incontro alla persona offesa, pur sapendo della sua indole violenta e aggressiva, nonostante le Forze dell’ordine fossero state allertate poco prima e avessero assicurato la loro presenza qualora P. si fosse presentato presso la casa dell’imputato.

Pertanto – ha logicamente ragionato sulla scorta degli elementi acquisiti il giudice di appello – essendo l’imputato uscito dalla propria abitazione prima che P. vi fosse giunto ed avendolo aspettato per “mettersi tra lui e la sua famiglia”, in un momento in cui il pericolo che P. realizzasse le minacce profferite per telefono non era attuale, lo stesso aveva liberamente scelto di affrontare il suddetto soggetto, senza essere spinto dalla necessità di difendere i propri familiari, implicitamente accettando qualunque conseguenza che sarebbe potuto scaturire da quella sua condotta.

L’aderenza alle risultanze processuali degli argomenti valorizzati dalla sentenza impugnata e la correttezza logica delle conclusioni tratte si evincono anche dal rilievo che S., dopo aver visto il coltello, coltello che non era stato usato dalla vittima (pag. 13 della sentenza primo grado), egli avrebbe potuto raccoglierlo e limitarsi a brandirlo invece di utilizzarlo. I giudici di merito hanno anche evidenziato che, in ogni caso, l’imputato, se fosse stato animato da un effettivo intento difensivo ed auto protettivo, dopo che aveva inferto all’avversario alcuni colpi, avrebbe desistito dal continuare a colpirlo, si sarebbe allontanato ed avrebbe chiamato i soccorsi.

Invece, la ricostruzione dell’azione aggressiva messa in essere da S. aveva condotto ad accertare che egli aveva portato la maggior parte dei fendenti al corpo di P. quando la vittima era a terra.

I giudici di merito non hanno potuto non considerare che l’imputato aveva inferto ben 31 coltellate alla vittima e che, per asseverazione del padre dell’imputato S.G. aveva cercato di bloccare il figlio mentre questi si apprestava ad infliggere a P. l’ennesima coltellata.

2.2. E’ restato assodato che, al di là della scaturigine dello scontro, l’imputato, oltre a potersi sottrarre alla sfida in precedenza, dato che i familiari avevano comunicato l’arrivo di P. con intenzioni bellicose ai Carabinieri, quando comunque P., ancora vivo, era caduto in terra colpito dai suoi primi fendenti e non poteva in nessun modo aggredirlo, aveva portato altri colpi, i più numerosi e conclusivamente letali.

Sotto gli indicati profili, assodata la situazione di fatto sulla scorta della congrua motivazione fornita dai giudici di merito, non può che ribadirsi il principio di diritto secondo cui non è invocabile la scriminante della legittima difesa da parte di colui che accetti una sfida oppure reagisca ad una situazione di pericolo volontariamente determinata o alla cui determinazione egli stesso abbia concorso e nonostante disponga della possibilità di allontanarsi dal luogo senza pregiudizio e senza disonore (Sez. 1, n. 56330 del 13/09/2017, La Gioiosa, Rv. 272036; Sez. 1, n. 18926 del 10/04/2013, Paoletti, Rv. 256016; Sez. 1, n. 4874 del 27/11/2012, dep. 2013, Spano, Rv. 254697).

In modo ineccepibile è stata, in consecutio, dalla Corte di merito esclusa l’evenienza dell’eccesso colposo inerente alla succitata scriminante: per vero, non può essere configurato l’eccesso colposo previsto dall’art. 55 c.p. in mancanza di una situazione di effettiva sussistenza della singola scriminante, di cui si eccedono colposamente i limiti (Sez. 1, n. 18926 del 10/04/2013, Paoletti, Rv. 256017).

3. Nel suo complesso neanche l’impugnazione proposta dalle parti civili merita accoglimento.

3.1. La prima doglianza è all’evidenza inammissibile.

Deve ribadirsi che non è suscettibile di essere impugnata con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla mancata concessione di una provvisionale: ciò, perchè si tratta di una decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata (Sez. 5, n. 32899 del 25/05/2011, Mapelli, Rv. 250934).

Tale orientamento si inserisce coerentemente nell’alveo dell’indirizzo che, più in generale, nega l’impugnabilità alla statuizione pronunciata in sede penale e relativa non solo alla concessione ma anche quantificazione di una provvisionale, proprio in ragione della natura ampiamente discrezionale della corrispondente decisione, il cui carattere esclusivamente delibativo non esige in via necessaria la motivazione (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D. G., Rv. 263486).

3.2. Quanto al secondo motivo, esso va reputato ammissibile limitatamente alla censura, avente un qualche effetto ai fini civili, inerente all’avvenuto riconoscimento in favore di S. dell’attenuante della provocazione.

3.2.1. Invero, deve condividersi e riaffermarsi l’indirizzo più recente secondo cui la parte civile è legittimata a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di condanna che abbia riconosciuto all’imputato l’attenuante della provocazione, siccome trattasi di accertamento incidente sugli effetti civili (Sez. 5, n. 8918 del 12/02/2016, Solano, n. m.; Sez. 5, n. 26180 del 25/06/2002, Lucchesi, Rv. 221793; Sez. 1, n. 4775 del 03/03/2000, Giorgione, Rv. 215812): in effetti, questa attenuante si configura come fatto colposo concorrente nella produzione dell’evento, posto in essere dal provocatore per non avere diligentemente calcolato le conseguenze del suo comportamento, e cioè la reazione del provocato; l’accertamento della sua evenienza può, dunque, fornire al giudice della liquidazione del danno un elemento influente nella relativa quantificazione.

3.2.2. Viceversa, la restante censura è generica lì dove recrimina per la mancata risposta da opera della Corte territoriale sulla sua doglianza relativamente all’assoluzione dell’imputato dal reato sub B), senza però sollevare una specifica critica alla motivazione della sentenza di appello nella parte in cui essa sottende la ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice sulla carenza di prova piena circa il porto del coltello da parte dell’imputato prima dello scontro con la vittima, mentre è priva di interesse nella parte in cui reitera, in via ulteriore rispetto alla questione della suddetta attenuante e in maniera peraltro indistinta, la questione della inadeguatezza della pena irrogata.

Posto che l’art. 576 c.p.p. (in relazione al principio della necessità dell’evenienza dell’interesse ad impugnare, ex art. 568 c.p.p., comma 4), limita il potere di impugnazione della parte civile ai capi delle sentenze di condanna che riguardano l’azione civile nonchè alle sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio, è inammissibile, per il principio di tassatività delle impugnazioni, il ricorso per cassazione avente ad oggetto le statuizioni afferenti esclusivamente alla pena (Sez. 3, n. 5860 del 12/10/2011, dep. 15/02/2012, C. Rv. 252120; Sez. 2, n. 12613 del 08/10/1999, Tonani, Rv. 214409).

3.2.3. Circa la (come si è visto, ammissibile) reiterazione della critica avente ad oggetto il riconoscimento dell’attenuante della provocazione, la motivazione resa dalla Corte territoriale si profila, tuttavia, congrua e logicamente coerente.

I giudici di appello hanno spiegato, in consonanza con l’accertamento e la valutazione operati dal giudice di primo grado, che le minacce propalate da P. contro gli stretti congiunti di S. e specificamente nei riguardi della sorella dell’imputato S.C. (che da pochi giorni aveva partorito un figlio concepito con P.S., suo convivente, e che, tuttavia, questi, spesso dedito all’alcol e alla droga, la stava sottoponendo a intimidazione minatoria) si sono configurati e reiterati in guisa tale da generare lo stato d’ira nell’imputato, maturato definitivamente quando si è trovato di fronte P. che si muoveva con seria aggressività, deciso a concretizzare le minacce stesse: stato che ha influito sul condensarsi della determinazione omicida di S..

Le contestazioni mosse a questa ricostruzione dalle parti civili rinvengono, quindi, nell’accertamento compiuto in modo adeguatamente motivato dai giudici di merito un insormontabile ostacolo alle diverse prospettazioni sottese a quelle contestazioni.

Infatti, la doppia decisione di merito, conforme sull’argomento, ha, sulla scorta della ritenuta attendibilità delle dichiarazioni dello stesso S.U., fatto emergere la necessità di tenere conto dello stato d’ira che aveva pervaso l’animo dell’imputato, il quale: 1) aveva assistito poco prima, in casa, durante la cena, alle minacce patite dalla sorella; 2) si era certamente turbato per il clima di tensione e paura che il comportamento di P. aveva causato nei suoi familiari; 3) in quella situazione, aveva poi incrociato P.S. davanti all’ascensore e percepito concretamente l’atteggiamento fortemente aggressivo assunto dal medesimo quale fattore di aggravamento della situazione; 4) questa situazione era divenuta tale da catalizzare il suo sentimento di avversione-preoccupazione in un vero e proprio stato d’ira, poichè l’intenzione del convivente della sorella era, con ogni evidenza, quella di salire in casa, con il concreto rischio che egli desse seguito alle minacce.

Per contro, le parti civili, al di là delle (non consentite) incursioni nella ricostruzione in fatto, fanno leva sul contenuto di alcune testimonianze – quelle di P.L., S.C., S.G. e D.A. – senza chiarire in qual modo le relative dichiarazioni (provenendo da persone che non è emerso abbiano assistito al momento iniziale dello scontro fra offensore e vittima e non hanno potuto quindi notare l’atteggiamento della vittima conclusivamente idoneo a determinare lo stato d’ira dell’imputato) dovessero considerarsi tali da mettere in crisi la coerenza del discorso giustificativo riproposto sul tema dalla Corte territoriale.

Pertanto deve concludersi che i giudici di appello, ritenendo sussistenti nel caso di specie tutti i requisiti della provocazione, hanno fatto retto governo del consolidato principio di diritto, da ribadirsi, secondo cui ai fini della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 2, occorrono lo stato d’ira (costituito da un’alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il fatto ingiusto altrui), nonchè il fatto ingiusto altrui (che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale) ed infine un rapporto di causalità psicologica – e non di mera occasionalità – tra l’offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza tra l’una e l’altra condotta (Sez. 1, n. 47840 del 14/11/2013, Saieva, Rv. 258454).

Questo punto del motivo di ricorso va, in definitiva, considerato non fondato e, quindi, respinto.

4. Di conseguenza, le due contrapposte impugnazioni devono essere rigettate.

Tale esito determina, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna di entrambi i fronti ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

5. L’approdo si riflette sul regolamento delle spese processuali del grado relativo alla posizione delle tre parti civili D.L.A., P.C. e P.G..

Le spese del grado, in relazione al rilievo secondo cui è stato rigettato il ricorso delle parti civili al pari di quello dell’imputato, vanno opportunamente compensate fra le parti private.

In effetti, quando non siano state accolte nè l’impugnazione dell’imputato, nè quella della parte civile, deve ravvisarsi la soccombenza non solo del primo, ma anche della seconda, per cui consegue la possibilità (ai sensi dell’art. 541 c.p.p., in relazione a quanto previsto dagli artt. 91 e 92 c.p.c.) di dichiarare compensate le spese tra le parti, dal momento che costituisce giusto motivo di compensazione delle spese processuali la soccombenza reciproca delle parti (Sez. 2, n. 48733 del 06/10/2016, Panitteri, Rv. 268283; v., con riferimento al previgente codice di rito, Sez. 4, n. 3966 del 12/12/1974, dep. 1975, Ivanov, Rv. 129730).

PQM

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Dichiara compensate le spese del grado tra le parti private.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2018.